sabato 24 dicembre 2016

Cos’è il Natale?

di Francesco Del Giudice
 
La rubrica di storia Lux Veritatis offre oggi una articolo un pochino particolare dedicato alla Festa del Natale. E’ particolare perché, e secondo noi non potrebbe essere altrimenti, mescola argomenti non solo storici ma anche filosofici, teologici ed artistici. Buona lettura dell’articolo ma soprattutto tanti auguri da tutti noi per un Santo e Buon Natale!

Domani è Natale. E così infatti dicono tutti. Natale: basta nominare questa parola e gli occhi dei bambini brillano di gioia ma anche far sorridere (e non sempre di gioia) i più grandi. I bambini immaginano un Natale mentre gli adulti ne immaginano un altro. I primi sono tutti protesi (come è giusto, ci mancherebbe altro!) alle luci, ai lustrini, ai regali: guardano tutto questo mondo attorno a loro che si risveglia come guarderebbero spuntare per la prima volta l’alba. I secondi pensano invece sempre alle luci, ma come una gara con i vicini; pensano anche loro ai lustrini, ma solo se abbinati al vestito per il cenone a casa di quello o quell’altro parente; anche gli adulti pensano ai regali, ma rigorosamente da scambiare prima della festa e, magari, da comprare mesi prima in uno dei tanti centri commerciali aperti anche la domenica.

Quante volte si sente dire dagli adulti frasi denigratorie attorno al Natale tipo “non vedo l’ora che finiscano le feste!”, “non se ne può più di questi regali”, “che sono tutti questi sprechi?” e simili? Non giriamoci intorno, infatti, e non nascondiamoci dietro ad un dito: quello che abbiamo descritto sopra è un’amara verità in cui siamo tutti immersi, volenti o nolenti. Tendiamo infatti ad antecedere le cose da fare a come e perché farle, e preferiamo correre a destra e sinistra anziché fermarci un momento. Fermare: un verbo tanto natalizio quanto oggigiorno negato. Si, esatto: un vero e proprio verbo natalizio. E posso affermare questa cosa a ragion veduta: cos’è, infatti, in ultima istanza il Natale se non la sospensione (e, dunque, l’inversione) di tutte le leggi dell’universo nel momento in cui è avvenuto «il misterioso scambio di doni»[1] tra l’eterno e il finito?

Entriamo qui logicamente in quello che per il mondo contemporaneo è un vero e proprio campo minato che, secondo il cosiddetto pensiero politicamente corretto, è meglio evitare: che cos’è il Natale? Noi, invece, non curandoci minimamente di questi problemi (che, anzi, riteniamo dannosi in quanto non aprono la mente umana alla conoscenza di tutte le realtà, costringendo l’intelletto in legacci difficili da sciogliere) vogliamo cercare di rispondere non solo alla domanda di prima ma, anzi, rispondere in maniera ancor più radicale, andando alla radice (per l’appunto) del problema: cos’è, veramente, profondamente, realmente, il Natale? La risposta, ci piaccia o non ci piaccia, è semplice: è la festa cristiana (e non potrebbe essere altrimenti) che celebra la nascita sulla terra di Gesù, che sarà successivamente detto Cristo, ovvero il Figlio di Dio inviato nel mondo per la redenzione di tutti gli uomini, avvenuta circa 2000 anni fa in un villaggio dell’attuale Palestina, Betlemme. Nessun altro avvenimento è pertanto minimamente paragonabile a quello che i cristiani festeggiano, e da sempre, in questo 25 Dicembre: non si festeggia infatti la nascita di un profeta o di un filosofo: a Natale si festeggia la nascita di Dio.

Partendo da questo evento è chiaro cosa volevamo dire prima: se si accetta pienamente la nascita di Cristo, infatti, è ovvio che ci si porrà in maniera differente dinanzi alla celebrazione delle festività natalizie: facendolo e meditandolo, inoltre, si capisce l’affermazione che il verbo ‘fermare è un verbo tipicamente natalizio. Ci è nuovamente utile il Prefazio citato poco sopra: in questa preghiera, che si recita nelle chiese cattoliche il giorno di Natale, infatti, è spiegato nel dettaglio il mistero che si celebra, vale a dire «il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale». Questo è infatti il Natale: l’inversione delle leggi non solo umane e sociali[2] bensì anche quelle fisiche, vale a dire delle leggi che da sempre governano l’universo intero. I cristiani non dovrebbero mai stancarsi di sottolineare questo aspetto perché è la testimonianza diretta dell’intervento di Dio nella storia dell’uomo: la nascita di Cristo, infatti, è un vero e proprio miracolo, vale a dire il sovvertimento delle leggi fisiche per diretto intervento di Dio. Per usare termini filosofici, possiamo dire giustamente che l’infinito entra nel finito. Anzi, sceglie di vivere in maniera finita (tant’è che Cristo morirà, come tutti gli uomini). Ma se vi è il sovvertimento delle leggi fisiche vuol dire che esse, almeno per un determinato tempo, sono state sospese: si sono, pertanto, fermate.

A ragion veduta infatti tutta la tradizione della Chiesa comunica questo aspetto in svariati modi perché è espressione dell’amore di Dio nei confronti degli uomini. Ad onor del vero, in ogni mistero che la Chiesa celebra rimanda ad una situazione di miracolo e di sovvertimento delle leggi fisiche[3] ma che, senza ombra di dubbio, si è sempre preoccupata di sottolineare per la festa del Natale fin nei minimi particolari: dai canti popolari (In Notte placida) ad opere altrettanto popolari di un Dottore della Chiesa (Fermarono i cieli di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori) per approdare ad un fenomeno tradizionale come il presepio. Attesa, sosta, meraviglia, calma: ogni cosa ci riporta sempre alla radice profonda del mistero del Natale, sebbene sia difficile da immaginare presi come siamo a fare i regali oppure a fare il presepe.

Già, fare il presepe. Un altro grande discorso che si apre anche per chi si dice cristiano perché spesso non è chiaro che cosa si debba e cosa non si debba raffigurare: quanti personaggi? E quali? Si vedono infatti in giro dei presepi (spesso smerciati come opere di ‘grandi artisti’ o ‘maestri’) che spesso hanno difficilmente anche i personaggi necessari perché ci sia un presepe, senza contare ambientazioni e raffigurazioni molto discutibili. Anche qui dobbiamo lasciarsi guidare dai fatti che sono per loro natura duri a morire: in un presepe degno di questo nome deve essere presente almeno Gesù, Giuseppe, Maria, l’Asino, il Bue, la Stella Cometa, un Angelo, un Pastore, tre Re Magi. Se è vero che il presepio nasce non come elemento liturgico (sottoposto quindi a rigide regolamentazioni da parte di un’Autorità) ma come espressione della cosiddetta pietà popolare (e che, pertanto, può essere declinato in maniera diversa nel tempo e nello spazio), è altrettanto vero che ci sono secoli di tradizione che ci dicono come fare un vero presepio: in esso infatti, sono sempre stati presenti elementi desunti dalla Sacra Scrittura (Gesù, Giuseppe, Maria, Stella Cometa, Angelo, Pastori, Re Magi) ma anche dalla Tradizione (Bue, Asino, Tre Re Magi). Per questo motivo li ho messi insieme sopra ed ad ognuno ho attribuito la lettera maiuscola riconoscendo dunque loro una dignità profonda e vera. La caratteristica principale del presepe, tuttavia, non è solamente quella di attingere sia dalla Tradizione che dalla Scrittura[4] ma è anche quella di rendere visibile l’invisibile. Il presepe inoltre raffigura non solo la nascita del Figlio di Dio ma anche lo stupore[5] di cui parlavamo sopra: ogni statua è infatti ferma, attonita, stupita dinanzi allo stupore del creato per la nascita di Cristo. E’ molto improprio, per quanto molto suggestivo e affascinante, riempire il presepio di effetti speciali: se vi è stupore come è possibile concepire che tutti (o la maggior parte[6]) dei personaggi continui imperterrito a fare il proprio mestiere?

Ma è legittimo fare il presepe, anche in luoghi pubblici? Da un punto di vista profondamente laico e razionale è doveroso rispondere positivamente a questa domanda: esso infatti è espressione di evento realmente accaduto (la nascita di Gesù) cui, ovviamente, i credenti attribuiscono un’accezione teologica (la nascita del Figlio di Dio). Ma rappresenta nondimeno anche la nascita di Gesù, vale a dire di una persona che ha presentato se stesso come Figlio di Dio cui si può liberamente credere e non credere. Nel caso italiano, inoltre, esso rappresenta la nostra comune italianità: anche questa è un’affermazione che non facciamo partendo da un’impostazione teologica bensì da un fatto avvenuto nel Natale 1944 nel Lager tedesco di Wietzendorf dove vennero rinchiusi tantissimi militari italiani[7]. Il Colonnello Pietro Testa, responsabile dei prigionieri italiani di quel campo, volendo «combattere la depressione dei suoi uomini […] ai suoi militari aveva ordinato approssimandosi il Natale: “Qui bisogna fare in modo che in tutte le Stube ci sia un segno del nostro Natale che è il presepio[8]». Il presepio più originale venne realizzato clandestinamente da Tullio Battaglia ed “inaugurato” durante la Messa della Vigilia di Natale (altrettanto clandestina) celebrata avendo come tovaglia d’altare la bandiera italiana tenuta nascosta dai prigionieri. Come ha testimoniato lo stesso Battaglia «Nessuno può dimenticare la Messa di quella notte, celebrata ai piedi di questo presepio. Nessuno lo può dimenticare, nemmeno l’ateo convinto che era stato fino allora malinconico»[9].

Papa Francesco Giovedì 22 Dicembre ha telefonato in diretta ad UnoMattina. I conduttori hanno chiesto al Pontefice un messaggio per l’imminente Natale e Francesco ha augurato a tutti «un Natale cristiano, come è stato il primo, quando Dio ha voluto capovolgere i valori del mondo, si è fatto piccolo in una stalla, con i piccoli, con i poveri, con gli emarginati… La piccolezza. In questo mondo dove si adora tanto il dio denaro, che il Natale ci aiuti a guardare la piccolezza di questo Dio che ha capovolto i valori mondani».

Cerchiamo anche noi di vivere questo Natale come è stato il primo: mentre andiamo in giro per presepi, cerchiamo quindi anche i primi pastori che hanno adorato il Bambino Gesù assumendo lo stesso loro stupore e la loro stessa meraviglia per questo Bambino che è nato per noi.





[1] Messale Romano, Prefazio di Natale III, Il misterioso scambio di doni.
[2] Sintetizzate efficacemente da Maria nel Magnificat: «l’Onnipotente […] ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli uomini; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote»
[3] Basti pensare al miracolo per eccellenza, testimonianza della validità e della veridicità dell’annuncio cristiano, cioè la Pasqua.
[4] Quelle che la Chiesa Cattolica definisce come le fonti della Rivelazione. Non per nulla il presepio è un fenomeno, con le dovute varianti dovute al tempo ed allo spazio, tipicamente cattolico.
[5] In alcune tradizioni presepiali presente addirittura la definizione di meraviglia per alcune determinate figure.
[6] Sebbene in alcune tradizioni presepiali siano presenti delle figure, ad esempio voltate di spalle alla Natività, simboleggiando il passo del Vangelo di Giovanni «venne tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto».
[7] Si tratta degli Internati Militari Italiani, vale a dire soldati italiani che dopo l’8/09/1943 rifiutarono di collaborare con il Reich tedesco scegliendo di prendere la via dei campi di prigionia e di lavoro per non tradire la Patria natia. Ci riproponiamo di tornare in futuro su questo argomento tanto glorioso quanto sconosciuto che ha riguardato i nostri nonni.
[8] Anna Maria Casavola, Natale 1944 a Wietzendorf in Noi del Lager ottobre/dicembre 2012, cit. in Testimonianze, a cura di Carla Marmo, Asti 2014, p. 6. Il presepe nel 1944 venne visto come segno del NOSTRO Natale. Oggigiorno viene bandito dai luoghi pubblici, in primis le scuole.
[9] Conclude Battaglia:«il Presepio di Wietzendorf continua a raccontare la storia di umili e fieri soldati d’Italia che non accettarono compromessi. Forti del loro giuramento per l’onore militare non lasciarono cadere le loro stellette nel fango». Si tratta di una brevissima pubblicazione, distribuita in fotocopia nel Museo del Tesoro di Sant’Ambrogio dov’è esposto attualmente il Presepe del Lager.

lunedì 19 dicembre 2016

Filosofare, ovvero: elogio della ragione

di Francesco Del Giudice

 
Negli scorsi articoli di questa rubrica Quid est veritas abbiamo cercato di analizzare e spiegare l’atteggiamento ed il comportamento dei primi filosofi nei confronti della realtà: questa breve analisi ci ha fatto scoprire termini quali astrazione, meraviglia, metafisica, principio di non contraddizione ma, soprattutto, il fatto che la ricerca filosofica possa avvenire solo e solamente per mezzo del corretto uso della ragione. Questa infatti è la principale novità che la (corretta) filosofia ci offre ancora oggi: ci pensiamo mai? E se lo facciamo, riflettiamo attentamente su ciò che significa?

Pensiamo solamente alle espressioni di uso frequente che sentiamo ed utilizziamo tutti i giorni: uomini di ragione, secondo ragione, le ragioni di quella scelta, la ragione ultima di quella cosa, etc: riflettiamo mai abbastanza sul fatto che usiamo una terminologia profondamente filosofica che travalica cioè l’immediatezza dei nostri sensi e ci proietta invece in un mondo (come abbiamo ben visto negli articoli precedenti) di una profondità abissale se paragonato al nostro vivere quotidiano?

La ragione è qualcosa di profondamente diverso da tutte le categorie usate prima della nascita della filosofia: il termine infatti, come riporta correttamente il Vocabolario Treccani[1], deriva dalla traduzione latina (ratio) del vocabolo lògos che nella lingua greca indica un qualcosa di profondamente ordinato. Dobbiamo capire bene cosa stiamo dicendo perché questi termini sono fondamentali per poter comprendere appieno il linguaggio filosofico. Com’è noto, infatti, il greco antico presenta una varietà smisurata di sinonimi e di sfumature per ogni sua singola parola (cosa invece quasi del tutto sconosciuta al latino) per cui è difficile da comprendere appieno il significato profondo di una parola. Lògos, da questo punto di vista, ad esempio, ha un duplice significato: significa sia discorso ma significa anche ragione, intendendo questo secondo termine come la facoltà di pensare mettendo in giusta relazione le cose tra di loro. La profondità del termine, tuttavia, non è ancora bene chiara in quanto lògos, oltre ad indicare ordine, è usato anche come sapienza e fondamento: da questo punto di vista, potremmo anche tradurre lògos con cardine, vale a dire un qualcosa di fondamentale per il giusto ordine di un determinato oggetto. Questo concetto in grammatica è espresso con il vocabolo verbo[2].

E’ chiaro pertanto che ragione è un vero e proprio termine polisemantico ma che riguarda sempre le categorie di giustezza, accuratezza e precisione: ecco perché anche nel linguaggio comune utilizziamo ancora oggi le espressioni che abbiamo citato sopra che rimandano ad un’ideale di perfezione o di correttezza. E’ altrettanto chiaro, pertanto, che un sistema filosofico degno di questo nome debba essere rispettoso e ossequiente al corretto uso della ragione altrimenti avremmo un sistema filosofico (che intende pertanto spiegare la realtà per quel che è) non ordinato e quindi senza verità.

Anche in questo caso conviene riflettere bene su quello che stiamo dicendo perché oggigiorno siamo abituati invece a sentire l’elogio di filosofie senza verità (il cosiddetto nichilismo), oppure di filosofie irrazionalistiche, ma anche di filosofie relativistiche (vale a dire portatrici di molteplici verità che si annientano tra di loro): tutte queste filosofie, apparentemente, hanno un loro ordine ma partono sempre e solo da un punto di vista errato, vale a dire il fatto che l’uomo non è capace di trovare la verità nelle cose. In pratica, questi sistemi filosofici sono contraddittori nella loro stessa natura: vogliono insegnare qualcosa che poi o non esiste o è inutile conoscere: ma che senso ha perseguire un ideale pur sapendo che è inservibile o superfluo? Facciamo un esempio pratico: tutti sappiamo che l’arsenico, se assunto in dosi eccessive, è dannoso per il nostro organismo (è, cioè, un veleno). Ci troviamo dinanzi ad una verità che tutti noi accettiamo senza neanche pensarci più di tanto. Ma poniamo il caso che domani un solo scienziato sentenziasse che l’arsenico invece fa bene all’organismo, e che la definizione di veleno è soggetta a dispute lessicali che dipendono dal periodo storico in cui vengono definite: assumereste senza farvi nemmeno una domanda una dose massiccia di quel veleno andando contro ciò che la vostra coscienza vi dice? Con le filosofie contemporanee avviene, mutatis mutandis, esattamente la stessa cosa: il mondo contemporaneo infatti ha scelto di non seguire né perseguire la ricerca della verità (che, come abbiamo visto, è la radice ultima della filosofia) accontentandosi invece di dichiarare che se esiste, la verità è debole oppure multipla. Questa è infatti il fondamento della cultura nella quale, volenti o nolenti, tutti quanti siamo immersi: non per nulla la nostra epoca è stata definita come post modernità, volendo significare che non solo non si ricerca più la verità forte ancorata in Dio (filosofia dell’età medievale) ma neanche più una verità forte radicata nell’uomo (filosofie razionaliste o atee, il cui esempio massimo è stato il marxismo).

La post-modernità rifiuta categoricamente ogni tipo di verità cosicché dovrebbe essere ancora più chiaro il titolo della nostra rubrica ed il nostro primo articolo: con tutti noi stessi, cioè, cerchiamo di applicare correttamente la ragione, elogiandola ed esaltandola all’interno dei limiti che la realtà gli impone, alla ricerca della verità profonda delle cose per poter rispondere alle domande profonde dell’uomo.

Ma se cerchiamo la verità secondo ragione, sappiamo che essa sarà ordinata, logica, puntuale e soprattutto stabile e unica (le massime verità negate oggigiorno). Il problema del Lògos è antico quanto tutta la filosofia: non è forse Parmenide tra i primi a parlarci di due (apparenti) verità che si contrappongo tra di loro (la Doxa e il Lògos)? E Parmenide non afferma già (con tutti i limiti che la formulazione parmenidea ha avuto e continua a proporre ancora oggigiorno) che il corretto uso della ragione condurrà il filosofo alla scoperta dell’unica verità? E che l’uomo è fatto per la verità lo abbiamo già visto negli articoli precedenti. Parlando oggi di ragione, tuttavia, è doveroso riportare la definizione che Severino Boezio ha dato per definire la persona come «rationalis naturae individua sub stantia», vale a dire «una sostanza individuale di natura razionale»[3]: l’uomo cioè è portato per la sua stessa natura a ricercare la verità, e sempre in maniera razionale poiché applica in questo la sua stessa natura profonda[4].

Più assoluti, nessun assoluto: come abbiamo visto negli articoli precedenti, tertium non datur. E questo lo capisce chiunque, senza grossi sforzi: il difficile tuttavia è sopravvivere alle dilaganti filosofie post-moderne che invece da diversi decenni ci dicono il contrario.

Nelle prossime puntate di questa Rubrica vedremo più nel dettaglio alcuni di questi sistemi filosofici, ma prima è ancora necessario entrare maggiormente in possesso del corretto lessico filosofico. Dal momento che l’anno sta per finire, infatti, vi diamo appuntamento alle prossime puntate in cui tratteremo (pur nella brevità propria della rubrica di un blog) di uno dei temi che più hanno appassionato gli spiriti filosofici più importanti di tutta la storia: che cos’è il tempo?


[1] http://www.treccani.it/vocabolario/ragione/
[2] Così ad esempio lo troviamo nel Prologo del Vangelo di Giovanni.
[3] De duabus naturis 3, Patrol. Lat. LXIV 1345.
[4] Le implicazioni della definizione di Boezio sono ovviamente molto più vaste di questa semplice nostra piccolissima annotazione.

sabato 17 dicembre 2016

Isabella la Cattolica e la schiavitù degli indios

di Francesco Del Giudice
 
Dall’8 all’11 Dicembre si è svolto a Montefiascone l’XI Incontro della Voci del Verbo che ci ha impedito di poter scrivere e pubblicare gli articoli delle Rubriche Lux Veritatis e Quid est veritas?. Scusandoci per questo piccolo inconveniente, riprendiamo oggi 17 Dicembre, la nostra rubricata dedicata alla Storia.


Come abbiamo visto nell’articolo del 3 Dicembre, nel 1492 Isabella e Ferdinando inviarono Cristoforo Colombo per maria oceana con lo scopo di giungere ad partes Indie: il suo primo viaggio infatti partì dal porto di Palos il 2 agosto 1492 e si concluse nell’Isola di Guanahaní il 12 ottobre. Dal giorno della Scoperta inizia la grande avventura dell’esplorazione del continente americano in cui l’uomo europeo entrerà in contatto con civiltà che non avevano mai conosciuto né direttamente né indirettamente. Si trattava di popolazioni che, all’occhio di uno spagnolo dell’epoca apparivano da una parte da evangelizzare ma anche da schiavizzare. Non ci scandalizzi la cosa, in quanto non è lecito giudicare il tempo passato con gli occhi del presente: all’epoca infatti la schiavitù del non-cristiano era ampiamente giustificata grazie alla teoria della schiavitù naturale degli uomini barbari che, teorizzata da Aristotele, venne nel tempo piegata e modificata per giustificare la schiavitù dei non cristiani da parte di cristiani[1]. Leggendo attentamente la storia, tuttavia, possiamo affermare senza ombra di dubbio che, soprattutto per quanto riguarda la Spagna[2], tra i cosiddetti popoli precolombiani non incontriamo popoli schiavi bensì sudditi del Re di Spagna che, anzi, godevano di protezione diretta da parte del Sovrano esercitata, ovviamente, da un Viceré che si trovava in America. Perché avvenne questo e non, invece, ciò che il diritto dell’epoca permetteva? Perché fin da subito la Monarchia spagnola, ed Isabella in primis, si mostrò apertamente contraria alla schiavitù e favorevole invece alla civilizzazione degli indios.

Non possiamo vedere con attenzione ogni aspetto della vicenda che cominciò già nel 1495 e si concluse definitivamente nel 1680[3]: ci limiteremo qui a trattare la vicenda per sommi capi facendo riferimento a casi particolari che sono stati alla base degli eventi successivi.

Colombo stesso non era esente dalla mentalità schiavistica dell’epoca, tant’è che il 2 Febbraio 1495 inviò 500 indios de La Española (considerati da lui schiavi di buona guerra) per essere venduti nei mercati di schiavi dell’Andalusía: Isabella e Ferdinando il 12 Aprile autorizzarono la vendita[4] ma il 16 (solamente dopo 4 giorni) la sospesero «poiché Noi vogliamo sapere da letterati, teologi e canonisti se con buona coscienze siano vendibili questi schiavi da parte di voi solo»[5] rinunciando anche a riscuotere il denaro delle vendite già compiute. Che cosa era successo in quei quattro giorni? Ufficialmente non sappiamo nulla al riguardo ma, con ogni probabilità, Isabella e Ferdinando vennero assaliti da scrupoli di coscienza che si rifletteranno nelle loro future scelte. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di una visione pietistica di questo documento bensì la lettura corretta del testo: è incontrovertibile infatti, il fatto che i Monarchi usano le espressioni «con buona coscienza» e non altre di natura politica o economica. Un ulteriore evento del 1499 ci viene in aiuto per capire lo stato d’animo di Isabella dinanzi a queste “spedizioni” che Colombo organizzava dall’America. In quell’anno infatti, l’ammiraglio inviò nuovamente in Spagna circa 300 schiavi, regalandone uno a ciascun membro dell’equipaggio: quando Isabella seppe la notizia «si infuriò molto dicendo queste parole: “che potere [simile al mio] ha l’Ammiraglio di dare a chicchessia i miei vassalli?” ed altre simili»[6], ordinando in seguito che le fossero consegnati gli schiavi.

In pratica, Isabella e Ferdinando spostarono (probabilmente per la prima volta nella storia) il problema della schiavitù del non-cristiano dall’ambito politico-economico a quello morale: si è trattata di una vera e propria rivoluzione culturale che ancora oggi è difficile da comprendere appieno. Il loro agire non si limitò alla semplice istituzione di una commissione ma comportò anche il censimento degli indios in questione ed il loro rimpatrio in America (come accadde ad esempio nel 1500)[7] ed una cura particolare delle loro condizioni di vita.

Si apre qui un aspetto della Scoperta dell’America poco conosciuto e spesso ignorato di proposito: Isabella si occupò infatti della creazione e dell’organizzazione dei territori scoperti sia nel 1501 «volendo compiere il servizio di Dio e nostro, e l’amministrazione della nostra giustizia, e la pace, la tranquillità e il buon governo di queste isole e terra ferma»[8] sia nel 1503[9] con una Real Instrucción che, se letta attentamente, lascia meravigliati per quello che ordinava. In questa Ordinanza infatti la Regina ordina di creare dei pueblos di indios con una chiesa e un funzionario giudiziario per radicare l’istituto naturale della famiglia, consigliando anche matrimoni misti tra spagnoli ed indios; i funzionari devono compiere un censimento generale della popolazione e devono sovrintendere al comportamento degli indios, insegnando loro a coprirsi e a vestirsi. Isabella stabilì, inoltre, che in ogni villaggio si erigesse una chiesa con annessa una scuola come anche ospedali: entrambe le istituzioni devono essere aperte a tutta la popolazione, agli indios come agli spagnoli. La regina interviene anche in problemi interni alla popolazione indigena ma, contemporaneamente, critica il comportamento sia pubblico che privato degli spagnoli poiché tale condotta non produce né le conversioni né la pace da lei auspicate. Nello stesso documento, inoltre, sono presenti le primissime leggi che istituiscono e regolano la Casa de Contratación e il lavoro degli indios nelle piantagioni o nelle miniere (obbligando gli spagnoli a trattarli bene senza negare i diritti elementari degli indios, come il cibo).

È innegabile che le ordinanze di Isabella vennero in gran parte disattese dai suoi funzionari e dai coloni tanto che, in un’ulteriore carta del 20 dicembre 1503[10], Isabella stessa deplorò il fatto ampliando maggiormente il progetto iniziale ed obbligando a dare la giusta paga, giornaliera, ai lavoratori autoctoni facendo «in modo che gli indios siano trattati bene, e quelli che sono cristiani meglio degli altri» ricordando inoltre al Governatore: «che non consentiate né permettiate che ci sia occasione perché qualcuno gli possa far del male, o danno o altre barbarie»[11].

È importante conoscere questi documenti, benché ci possano sembrare solamente un lungo elenco di leggi mai applicate, perché ci permettono di capire meglio sia le intenzioni di Isabella sia quelle dei suoi successori: portare cioè la fede cristiana e la cultura europea in America per poter far diventare le popolazioni locali quello che sono oggi. I documenti infatti sono fondamentali per qualsiasi seria ricerca storica e, in pratica, il documento è lo specchio fedele di quanto sta accadendo in un determinato momento. Quelli che abbiamo citati poi sono ancora più importanti perché si tratta di leggi le quali hanno sempre un carattere pedagogico e culturale. Per capire appieno che cosa è stato realizzato in Spagna sotto Isabella e Ferdinando (e i loro successori), soprattutto nei confronti degli indios, dobbiamo leggere la legislazione di quegli anni come cartina al tornasole di una società che stava abbandonando vecchi modelli (giuridici e culturali) in favore di un nuovo modo di intendere l’uomo: tutte le leggi sopra nominate, cioè, devono essere usate come termine di paragone con altri Paesi e con altri modelli giuridici dell’epoca.

Solamente questa analisi, quindi, ci potrà portare a formulare un giudizio complessivo dell’opera che la Corona spagnola volle condurre in America non dimenticando però che le leggi hanno un valore per così dire “teorico” e devono essere tradotte in pratica: pur essendo coercitive, infatti, l’uomo può liberamente (ma non legittimamente) non applicarle o contraddirle[12]. Un conto, infatti, è definire (e quindi sanzionare) un reato, un conto è far applicare la legge. Legittimità e libertà, infatti, non vanno di pari passo né sono la stessa cosa poiché l’uomo può liberamente delinquere e porsi fuori dalla legge in maniera illegittima. Dobbiamo considerare inoltre altri due fattori fondamentali per l’applicazione della legge: la distanza geografica e la difficoltà (se non la quasi impossibilità a volte) di sanzionare i colpevoli in un mondo in cui non esistevano telefoni cellulari, mappe satellitari e tutte le altre innovazioni tecnologiche in nostro possesso[13]: come e quando si può sapere in Spagna, in un’epoca in cui non esistono né sms né tv satellitari, ciò che in America sta succedendo? La risposta è molto semplice: le notizie arrivavano filtrate dalle relazioni e dalle denuncie ma dovevano percorrere l’Oceano Atlantico in vari mesi di navigazione. La risoluzione del problema era affidata ad un’ordinanza che doveva essere applicata, sempre mesi dopo e sempre dopo aver percorso l’Oceano Atlantico, da un pugno di fedelissimi alla Corona.

E’ doveroso pertanto ribadire con forza questo principio: le leggi ci furono; i problemi vennero affrontati ma, ovviamente, era tutto rimesso alla piena osservanza ed alla piena accettazione degli ordini da parte di pochi uomini che, date le circostanze, potevano anche fare il bello e il cattivo tempo senza che nessuno lo sapesse. Nei pochi casi in cui le leggi non ci furono o i problemi non vennero affrontati con forza da parte dell’autorità, viceversa, dobbiamo denunciare la cosa senza porci nessun problema o scrupolo di coscienza. Come abbiamo già detto nell’articolo del 3 Dicembre, infatti, non abbiamo bisogno di una Leggenda Rosa: abbiamo bisogno della verità storica, che è una cosa completamente differente.

Per concludere: l’opera di Isabella e Ferdinando, continuata nel corso degli anni dai suoi successori, produsse ciò che l’uomo europeo del 1492 non poteva nemmeno immaginare: la creazione di un mondo, di una Nueva España o di una Magna Europa benedetta il 9 dicembre 1531 dall’apparizione sul Tepeyac (nei dintorni di Città del Messico) della Virgen Morena de Guadalupe che, presentandosi come una meticcia ed indossando una tunica con dei fiocchi neri all’altezza del ventre, è il sigillo ad un caso di un’inculturazione ed una civilizzazione che, per quanti errori abbia potuto commettere si deve ammettere che ha del miracoloso.


[1] Cfr. E. González Fernández, Humanismo frente a esclavitud en América durante el Cuatrocientos, in «Mar Oceana Revista del Humanismo Español e Iberoamericano», III, 1999, pp. 65-78; A. Rumeu de Armas, La politica indigenista de Isabel la Católica, cit.; M. Hernández Sánchez-Barba, Conciencia moral y dominio soberano: Isabel la Católica y la dignidad del súbdito americano, in «Mar Oceana Revista del Humanismo Español e Iberoamericano», IX, 2001, pp. 25-36.

[2] Il caso degli schiavi negri si situa all’interno di questa dottrina essendo originari dell’Africa erano ritenuti islamici e, quindi, appartenevano alla categoria degli infedeli che non godevano di piena cittadinanza, giacché questa era data solamente dall’essere cattolico (cioè dall’essere battezzato). Si può discutere questa teoria, e possiamo giustamente segnalare l’errore nell’attribuire a tutti gli abitanti dell’Africa l’appartenenza all’islamismo, ma possiamo farlo solamente con i nostri occhi di uomini del XXI secolo che hanno conosciuto anche le aberrazioni del ‘900 in cui vennero privati della dignità di persona interi popoli all’interno di logiche politico-culturali di matrice totalitaria. Per un uomo del XV-XVIII secolo, invece, era abbastanza comune credere in queste idee tanto da metterle in pratica. E’ bene specificare tuttavia che la voce della Chiesa si è sempre levata contro la schiavitù, in virtù sia dell’universalità della Redenzione di Cristo sia per la dignità propria di ciascun uomo in quanto persona. Nella maggior parte dei casi, per quanto riguarda l’America latina (governata cioè da Paesi cattolici) la schiavitù venne applicata con sotterfugi o andando sempre contro la legge vigente, apertamente non schiavistica.

[3] E’ l’anno in cui si giunse alla sintesi definitiva di tutta la legislazione sugli indios. In quell’anno infatti venne redatto da Sólorzano Pereira e Antonio de León Pinelo la Recopilación de Leyes de los Reynos de las Indias, diviso in 9 libri e che contiene 6385 leggi: come dice lo stesso titolo si trattò della raccolta sistematica ed organica di tutta la legislazione prodotta sull’America.

[4] Carta de los reyes autorizando en principio la venta como esclavos de los primeros indios arribados a la Metrópoli, Madrid 12 aprile 1495, AGI,PATRONATO,9,R.1, f. 83r.

[5] Carta de los Reyes mandando al obispo de Badajoz retener el producto de la venta de los indios que envió el Almirante, hasta consultar y estar seguros de si podrán o no venderlos, Madrid 16 aprile 1495, AGI,PATRONATO,9,R.1, ff. 85v-86r.

[6] Bartolome de las Casas, Historia de las Indias, Imprenta de Miguel Ginesta, Madrid 1875, p. 474. Traduzione dallo spagnolo mia.

[7] AGI,CONTRATACION,3249, f. 242. Colombo non fu l’unico a dedicarsi a tale tipo di commercio, cui parteciparono anche altri capitani ed esploratori: ad esempio, trasgredendo volontariamente il divieto reale, l’esploratore Cristobal Guerra inviò nuovi schiavi in Castiglia nel 1501. Quando lo seppe, Isabella in persona gli contestò il fatto, gli confiscò i propri beni (per poter pagare il riscatto degli indios ed il loro viaggio di ritorno) e lo fece arrestare: AGI,INDIFERENTE,418,L.1, ff. 70 r-v.
[8] Nombramiento de Fray Nicolás de Ovando por Gobernador de las Islas y Tierra Firme de las Indias, 3/09/1501, AGI,INDIFERENTE,418,L.1, ff. 24r-25r .

[9] AGI,INDIFERENTE,418,L.1, ff. 94 v-98v . Il documento è datato Alcalá de Henares 20 marzo 1501 e Zaragoza 29 marzo 1503: la prima data corrisponde alla firma della Regina mentre la seconda alla firma di Ferdinando che, dunque, ratificò semplicemente il documento. Lo stesso giorno vennero redatte delle ordinanze segrete a Ovando riguardanti aspetti puramente economici e amministrativi: AGI,INDIFERENTE,418,L.1, ff. 98 v-99v .

[10] AGI,INDIFERENTE,418,L.1, ff. 121v-122r .

[11] Lo stesso giorno venne emanata un’ulteriore Cedula per il Governatore Ovando permettendo agli indios che avevano intenzione di farlo di potersi recare in Spagna: se essi infatti erano sudditi come tutti gli altri, perché non avrebbero dovuto avere il permesso di viaggiare liberamente anche per mare?. Cfr. Real Cedula al gobernador Ovando para que puedan venir a España los indios que de su voluntad quisieren hacerlo (o anche Permiso para traer indios a Castilla), AGI,INDIFERENTE,418,L.1,F.120v-121r.).

[12] Si pensi al caso del furto in Italia: pur essendo vietato dalla legge, infatti, nel nostro Paese si compie una media di 1 furto ogni 60 secondi.

[13] La Corona emanava la legge in Castiglia ma l’ambito di applicazione era in America, a migliaia di km di distanza e, per di più, la legge doveva essere applicata da un uomo solo (un governatore) che, al massimo, poteva avere con sé una forza militare nuova (che, cioè, non era mai stata in America) di poche centinaia di uomini, se non di meno. Se il viaggio di andata era andato bene (e quindi i documenti non si erano bagnati, tutto l’equipaggio era rimasto in buona salute, la nave non era colata a picco, etc) il nuovo funzionario poteva andare alla ricerca del colpevole dei crimini. Ma, ovviamente, doveva trovarlo in un posto che era per i più sconosciuto ed inesplorato.