lunedì 28 novembre 2016

La filosofia e la demitizzazione dell’età antica

Che cosa ha significato la nascita della filosofia? E quali conseguenze ha prodotto questa immensa scoperta?

E’ risaputo che la filosofia sia nata nel VII secolo a.C. nelle colonie greche dell’Asia Minore, ed è altrettanto noto il fatto che le condizioni politico-culturali delle poleis greche abbiano favorito lo sviluppo delle arti, in particolare la poesia, cui inizialmente è legato il pensiero filosofico. Ogni manuale di Storia della Filosofia ha come primo capitolo una riflessione su questo fatto, incontrovertibile, che ci immette immediatamente nella cosiddetta filosofia naturalistica, vale a dire della ricerca dell’Arché e delle cause del mondo fisico che i primi filosofi individuano in un principio supremo fisico[1] come l’acqua, il fuoco, l’aria, etc.

Questa breve introduzione è presente in ogni manuale di storia della filosofia. Ma nel passaggio tra la spiegazione della nascita della filosofia ed i primi filosofi, mi sembra che si perda di vista una caratteristica fondamentale: almeno in teoria, la filosofia non poteva nascere né nella Grecia del VII secolo né, tantomeno, in tutto il mondo classico. Non è una contraddizione dire una cosa di questo genere (e tra poco spiegherò meglio cosa voglio dire) perché anche questo è un dato incontrovertibile: la filosofia nasce in un ambiente quasi del tutto ostile allo sviluppo di questa disciplina perché impregnato (se non addirittura fondato) sulla religione greca, caratterizzata dal politeismo e dalla onnipresenza del Fato. Il paganesimo in generale (compreso quello che ancora oggi si trova oggi in diverse popolazioni nel Mondo, tra cui possiamo citare diverse tribù della Papua e della Tanzania) vede il mondo, cioè tutto ciò che noi comunemente chiamiamo creato, come pervaso e/o animato da forze divine che rendono pertanto inconoscibile ed intoccabile ogni cosa: in questa visione del mondo, pertanto, gli eventi fisici sono espressione dell’umore degli dei (che può essere più o meno adirato con gli uomini) ma sono anche delle teofanie vale a dire la manifestazione della natura profonda del dio. E’ difficile per noi uomini del XX sec, eredi di cultura impregnata volente o nolente sia di cristianesimo che di filosofia, capire una cosa del genere. Sappiamo bene infatti che i fenomeni fisici soggiacciono a rigide leggi che sono sempre uguali nel tempo e nello spazio e che rendono alcuni eventi inevitabili, se non per espresso intervento di un agente esterno. Facciamo un caso semplice: se spingo con violenza un mio amico, questi adrà pesantemente a terra (evento inevitabile) a meno che non intervenga un altro amico che lo tratterrà dal cadere, rendendo così l’evento evitato. Facendo un esempio diverso, se rimango con i panni bagnati tutto il giorno, la mattina seguente sarà inevitabile che mi verrà un raffreddore: per provare ad evitarlo, infatti, io dovrò asciugarmi per bene e prendere una bella aspirina[2]

Per noi è comune ragionare in questo modo, ma nel VII secolo a.C. non era esattamente così: anche il sistema teologico pagano infatti prevedeva che gli uomini soggiacessero alle leggi degli dei, i quali potevano anche manifestare più o meno apertamente i propri umori[3], sia al Fato al quale, addirittura!, erano sottoposti gli stessi dei[4]: gli uomini pertanto non erano propriamente liberi né nelle loro scelte né nel rapporto con il mondo circostante cosicché era abituale (e continua ad essere normale per le culture pagane che ancora esistono oggigiorno) non opporsi al caos che si vede regnare nella natura. Le forze della natura potevano semplicemente o essere assecondate oppure si cercava di placare i variabili umori degli dei (che, ripetiamo, governano le forze della natura) per poter cercare di sopravvivere: si tratta di una vera e propria stasi nella vita dell’uomo in quanto le forze divine soverchiano i deboli tentativi degli uomini. Non c’è, in pratica, un vero e proprio progresso (che prevede la soluzione, temporanea o duratura, di un problema che si pone dinanzi all’uomo) ma di un continuo ritorno: anche la concezione della storia è influenzata da questi eventi, in quanto si avrà una concezione ciclica della storia che annulla il valore infinito di ogni comportamento umano riducendolo solamente ad un atto all’interno del tutto[5].

Ebbene, fatta questa dovuta premessa, con la nascita della filosofia noi assistiamo invece ad un capovolgimento: l’uomo può indagare la natura delle cose, può entrare in esse, può decifrarle, può addirittura sottomerle al suo giudizio (giudizio di un uomo fallace, beninteso). Ma se l’uomo riesce a far questo, vuole dire che non considera più le cose come divine o, quantomeno, pervase dal divino: come potrebbe, ad esempio, un semplice essere umano contrastare con Poseidone per speculare sulla natura dell’acqua? Ma al di là del dato meramente fisico, quest’uomo sarà costretto a porsi anche una domanda circa la realtà profonda, vale a dire la realtà metafisica[6], dell’acqua. Ma per fare questo, quest’uomo sarà costretto a vederle come universali, cioè uguali nel tempo e nello spazio, e sarà costretto ad astrarre la natura della cosa, ma anche a postulare dei principi che saranno validi nel tempo e nello spazio per poter compiere la propria speculazione: tra questi ultimi, sono da ricordare il principio di non contraddizione[7] senza il quale non sarebbe mai stata possibile alcuna ricerca filosofica ma anche nessuna scienza, cui seguono il principio di identità[8] ed il principio del terzo escluso[9].

Tra i tre principi, quello di non contraddizione è quello di fondamentale importanza perché l’uomo si percepisce come un qualcosa di diverso da ciò che lo circonda e, pertanto, come soggetto operante sulle cose, le quali a loro volta sono diverse tra di loro, e se procedessimo nell’applicazione del principio a tutte le realtà capiremo sia che noi uomini siamo diversi dagli dei ma che anche gli dei sono diversi sia da noi che dalle cose: il filosofo compie in questo modo una vera e propria demitizzazione del reale, permettendo all’uomo di poter scoprire i meccanismi che regolano il mondo fisico ma anche di indagare la realtà profonda delle cose, che in filosofia prende il nome di ontologia[10].

Solamente partendo dal principio di non contraddizione l’uomo ha potuto sviluppare i sistemi filosofici che conosciamo[11], ma anche svolgere le più semplici analisi fisiche[12]: la comprensione e l’accettazione di questo basilare principio ha permesso all’umanità tutta, grazie all’opera dei primi filosofi (molti dei quali rimasti anonimi ma ai quali va tutta la nostra gratitudine) di uscire dall’universo mitico in cui è sommersa se impregnata di paganesimo.

Nei prossimi articoli continueremo a sviscerare la portata rivoluzionaria della nascita della filosofia e che fin da subito ha riguardato anche quelle che noi chiamiamo scienze matematiche, a cominciare dalla geometria che possiamo definire come la rappresentazione ideale della natura delle cose. Appuntamento pertanto alla prossima settimana!

Francesco Del Giudice



[1] E’ doveroso mettere il termine in corsivo perché per i primi filosofi questi fondamenti avevano comunque una natura non fisica, benché non conoscessero la terminologia metafisica per descriverla in maniera chiara e precisa.

[2] In teologia l’esempio principale è dato dai miracoli fisici, vale a dire dall’irruzione di un agente esterno (Dio) per modificare radicalmente una situazione inevitabile. La Chiesa Cattolica ad esempio riconosce come miracoli solamente quelle guarigioni improvvise, impossibili da spiegare e durature nel tempo: i verdetti medici in questi casi riportano genericamente la dicitura di scientificamente ad oggi impossibile da spiegare.

[3] A riprova di questo fatto, si veda il comportamento degli dei, ad esempio, nell’Iliade e nell’Odissea.

[4] «Coro: Chi governa la necessità? / Prometeo: Le Moire che tessono il filo e le Erinni dalla memoria implacabile. / Coro: E Zeus è più debole di loro? / Prometeo: Anche Zeus non può sfuggire a ciò che è destinato»: Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 515-518.

[5] Si veda il primo articolo, del 19 Novembre 2016, della Rubrica di Storia Lux Veritatis di questo stesso blog.

[6] Il termine deriva dal latino medievale metaphysica, che a sua volta deriva dal greco μετ τ ϕυσικ. Aristotele definiva questa dottrina con il termine «filosofia prima» (πρτη ϕιλοσοϕία), da lui definita come teoria dell’«ente in quanto ente» (ν ν; in latino: ens qua ens), che studia la realtà considerata solo nei suoi caratteri universalissimi che la fanno essere tale. Il termine non è quindi aristotelico ma deriva dalla catalogazione dei libri del filosofo di Stagira in cui il libro sulla filosofia prima veniva dopo (μετ in greco) quello della fisica.

[7] In sintesi: A non è Non-A. In linguaggio matematico: A ≠ ­A. La definizione di Aristotele è la seguente: «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo»: Aristotele, Metafisica, Libro Gamma, cap. 3, 1005 b 19-20.

[8] In sintesi: A è uguale ad A. In linguaggio matematico: A = A.

[9] La locuzione latina di Tertium non datur (non c’è una terza cosa) è emblematica per spiegare questo principio in cui due proposizioni, tra loro contraddittorie, cioè aventi una un giudizio affermativo e l’altra un giudizio negativo, non possono essere entrambe né contemporaneamente vere né contemporaneamente false: è necessario infatti che il giudizio di una sola di esse sia vera, e che la falsità dell’uno implichi la verità dell’altro, senza avere una terza possibilità.

[10] Il termine deriva dal greco ντος, (genitivo singolare del participio presente ν del verbo εμί, tr.: essere) e da λόγος («parola, discorso, ragione»).

[11] Ciò non nega il fatto che si siano potuti creare interi sistemi in cui il principio di non contraddizione era di fatto negato: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare, alla polemica tra Agostino e gli gnostici del V secolo.

[12] Lo stesso linguaggio di programmazione dei computer prevede una serie di 0 e di 1 che non si possono né mescolare né confondere.


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