martedì 24 gennaio 2017

70 Anni e non sentirli: buon compleanno a Peppone e Don Camillo!

Riprende oggi la pubblicazione degli articoli di storia all’interno della Rubrica Lux Veritatis dopo alcuni giorni di vacanze. Lo facciamo con un articolo dedicato ad un anniversario passato un po’ in secondo piano ma che a nostro giudizio meriterebbe di essere approfondito maggiormente. Quello che vi proponiamo vuole essere un invito alla lettura dei racconti del Mondo piccolo di Giovannino Guareschi tra cui spiccano, ovviamente, quelli di Peppone e Don Camillo.


Con un un mio amico, la sera del 29 Dicembre 2016, si parlava dell’imminente messa in scena della Favola di Natale di Giovannino Guareschi (il papà di Peppone e Don Camillo, per intenderci) che con diversi amici avremmo rappresentato il 6/01/2017 a Segni. Ad un certo punto questo amico mi ha chiesto: «Levami una curiosità: mentre cenavo, hanno parlato al TG di un anniversario di Guareschi… ma non ho seguito bene… tanto poi l’avrei chiesto a te: ne sai qualcosa?». Sono caduto dalle nuvole perché non mi veniva in mente nulla: se anche ci fosse stato qualche anniversario, io per primo non ci stavo minimamente pensando. Non che sia un esperto di Guareschi, ma si tratta sempre di un autore che leggo volentieri e consiglio sempre. Mi sono messo a fare una semplicissima ricerca e, meraviglia!, ho scoperto che il mio amico aveva ragione da vendere: si trattava del 70simo compleanno di Peppone e Don Camillo, nati esattamente l’antivigilia di Natale del 1946 dalla penna di Guareschi. Chiedendo perdono sia al mio amico che al buon Giovannino, da quel giorno mi sono riproposto di far conoscere ai lettori di questo blog questo grande quanto dimenticato (in primis dal sottoscritto) anniversario.
Qualcuno potrebbe dire: cosa c’entra Guareschi con la storia? E che senso ha parlare di figure letterarie come di personaggi realmente vissuti? Questa domanda, poiché legittima ed interessante, merita una risposta immediata: non solo le avventure di Peppone e Don Camillo sono ambientate in un determinato periodo storico (incarnando tutte le tipologie di persone del loro Mondo piccolo che cronologicamente si estende dal 1946 al 1966) ma ci permettono di poter dialogare, approfondire e meditare tematiche di largo respiro che hanno sempre il loro fondamento nella storia e nella filosofia. E’ lecito infatti secondo me parlare di storia come anche di filosofia citando Guareschi ma ancor più citando Peppone e Don Camillo. A mio parere, anzi, Guareschi si comporta come un vero storico ed un vero filosofo (analizzando cioè ciò che succede dinanzi ai suoi occhi cercandone i nessi, le cause e le motivazioni profonde) sebbene lo faccia nella maniera a lui solita, cioè il racconto: secondo me, Giovannino potrebbe entrare nei manuali di filosofia ma anche in quelli di storia (oltre a quelli di letteratura, ovviamente) anche più legittimamente rispetto ad altri personaggi ed autori. Come ho spesso detto a diverse persone, non solo reputo Guareschi rappresentante di un pensiero comune (cioè realista) ma andrebbe fatto leggere e meditare, in maniera obbligatoria e continuativa, nelle scuole ma soprattutto nei seminari.
A Guareschi in generale, ed al Mondo piccolo in particolare, io infatti riconosco (e dunque gli attribuisco) il carattere di classico, vale a dire di un’opera che ha più cose da dire ai posteri rispetto alle già infinite che ne poteva dire ai suoi contemporanei[1]. Un classico che non insegni nulla di diverso da ciò che è scritto non può essere degno di questo nome: al massimo è un mero libro, cioè un’opera scritta in epoche più o meno antiche. Ma di opere di questo genere, di cui apprezziamo magari lo stile, la forma letteraria, finanche l’intreccio, non so cosa farmene. Un classico parla alle corde profonde della coscienza del lettore, un libro lo appassiona semplicemente alla lettura. Un classico fa pensare (magari in maniera anche divertente come fa Giovannino), un libro fa solo passare tempo al lettore[2]: non per nulla a Clive Staples Lewis è attribuito il seguente aforisma: «un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere riletto a settanta».
Peppone e Don Camillo, come anche tutto il Mondo piccolo, ci riportano infatti sia tutti i caratteri dell’animo umano ma ci permettono di immergerci in questioni di capitale importanza per la vita di ogni uomo: fermo restando alcune inevitabili caratteristiche proprie di Guareschi, contingenti al periodo in cui scriveva e ad alcune sue idee di portata particolare, il Mondo piccolo potrebbe essere la cartolina di ciascuno dei nostri paesi, delle nostre famiglie, delle nostre comunità religiose. Nel Mondo piccolo è tale infatti perché riesce a racchiudere in sé ogni aspetto tipicamente umano sia nella parte positiva che nella parte negativa: vizi e virtù, destra e sinistra, amore ed odio, sacrilegio e devozione, fede e scetticismo, lavoro e festa, pianto e riso, vita e morte, perdono e vendetta. E questo elenco potrebbe continuare pressoché all’infinito. Difficilmente potremmo trovare in qualche altra raccolta di racconti brevi (perché tale è il Mondo piccolo) un ritratto dell’uomo così completo e così veritiero come quello tratteggiato dalla penna di Guareschi. Ma c’è sempre un protagonista più importante degli altri, benché a volte non appare nemmeno: sopra ogni cosa c’è infatti Dio che quando parla interviene per mezzo di Suo Figlio, vale a dire il Cristo Crocifisso[3]. Il Mondo piccolo infatti sottostà alle leggi ed alle evidenze di ragione: ogni volta è presente sempre una gerarchia cui ovviamente spetta la primazia al Creatore del mondo, benché non tutti i personaggi dei racconti accettino o trattino bene il Padreterno il quale però ha un grande amore nei confronti dei suoi figli ed è per questo che mostra di continuo la sua misericordia ma anche, se necessario, la sua giustizia.
Nei primi racconti di Don Camillo e di Peppone noi abbiamo uno spaccato della vita contadina e mano a mano che gli anni avanzano sembra quasi che le macchine stiano prendendo il sopravvento: potrebbe sembrarci un racconto da consegnare alla storia ma invece non è così perché i nostri personaggi, pur nella loro profonda diversità, entrambi ci trasmettono delle verità perenni dal momento che affondano le loro radici nelle corde profonde del cuore dell’uomo. Don Camillo ovviamente parte sempre da una visione del mondo cristiana e quando non lo fa, il Cristo dell’Altare Maggiore (ed a volte, addirittura!, lo stesso Peppone) lo riporta su questa strada in maniera anche brusca, ma sempre necessaria. Peppone, invece, quando non ragiona dal punto di vista prettamente marxista (come ebbe a dire Guareschi, gettando il cervello all’ammasso in favore, cioè, del punto di vista del Partito Comunista che, come è noto, non può sbagliare) ragiona invece da umile e forte (se non rude) uomo della campagna che guarda al progresso come un qualcosa di positivo ma da cui bisogna non farsi prendere troppo la mano. Partendo da queste due premesse, non uguali ma complementari tra di loro, sia Peppone che Don Camillo riescono ad uscire indenni dalla guerra, dai furori delle ideologie, dalle novità e le rivolte degli anni ’60 ma che, se continuassero ad esistere, potrebbero ancora dire tanto al nostro mondo in perenne cambiamento.
Dobbiamo fare attenzione, tuttavia, a non confondere i ruoli e i punti di vista dei personaggi del Mondo piccolo (cosa che, invece, sembra talvolta accadere nella trasposizione filmica di alcuni racconti) in quanto sono legati tra loro non solo gerarchicamente ma anche qualitativamente: Peppone è e sempre rimarrà comunista, benché il suo animo più profondo lo riporterà spesso e volentieri all’uso corretto della ragione (non alimentato, cioè, da faziosità partitiche ed ideologie) e don Camillo, per quanti difetti possa avere, e per quanti errori possa fare, sarà sempre e solo l’obbediente pastore di un gregge che il buon Dio (che, ricordiamo, parla per mezzo di Suo Figlio, il Verbo Incarnato) gli ha affidato. In effetti una delle perle del Mondo piccolo sta proprio nel trovare, come accade a noi ogni giorno d’altro canto, dei piccoli difetti nelle persone che non stonano tuttavia con la persona: se Guareschi avesse descritto i suoi personaggi o pieni di tormenti (espressione tipica ad esempio dei libri gialli contemporanei) oppure dei personaggi perfetti (a tal punto da sembrare finti) non avrebbe avuto né il successo che ha avuto né avrebbe meritato quel carattere di classico di cui parlavamo prima. Pensiamoci bene: noi siamo perfetti? E le persone accanto a noi lo sono? Non sarebbe un atto di superbia grandissimo il vantarsi di una cosa simile? E, d’altronde, non siamo i primi a vedere la pagliuzza negli occhi del vicino senza considerare la trave che è nel nostro? Ecco perché Guareschi stesso ha chiamato le sue raccolte Mondo piccolo: in esso c’è tutto, e c’è soprattutto il buon vivere (ed anche il buon governo) che manca oggigiorno alle nostre società in preda invece ad un individualismo sempre più sfrenato che genera, come rovescio della medaglia, una corsa all’assistenzialismo di Stato che paralizza ogni iniziativa privata e l’autorealizzazione di se stessi (tipica invece di una dottrina politica basata sui talenti delle persone, e non sulle capacità tecnico-economiche dello Stato).
Peppone, Don Camillo e tutti i loro compagni di avventure hanno tanti pregi. Ed anche i loro difetti sono per noi pregi dal momento che Guareschi opera in questo caso una vera e propria pedagogia negativa facendoci vedere come i cattivi comportamenti hanno sempre la punizione che portano con sé: se non dovesse apparire in questa terra c’è sempre la giustizia divina che, puntuale e perfetta, saprà dare a tutti il giusto per le proprie azioni. Un altro elemento interessante di questo Mondo è il fatto che non vi è la benché minima traccia di parole volgari (o, come accade talvolta oggigiorno, di bestemmie): i racconti possono così essere destinati alla lettura sia di un pubblico adulto che di quello più giovane, segno ancora della perenne attualità di Giovannino Guareschi e di queste sue opere.
Questo articolo, come avete modo di vedere, non riporta nemmeno una citazione del Mondo piccolo benché ne potessimo scrivere centinaia: facendo questo, tuttavia, ne avremmo tralasciate altrettante. A noi infatti interessa dare oggi uno sguardo totale al Mondo piccolo ed inserirlo all’interno della nostra Rubrica di Storia: questi personaggi, queste avventure, queste riflessioni, devono essere infatti visti come lo specchio di un mondo che, ahimè!, sembra non esserci più ma che sarebbe bene che torni. Pertanto il nostro miglior consiglio che vi diamo è di correre a comprare subito Tutto Don Camillo[4] e cercare di vivere appieno il nostro passato, presente e futuro (cioè: memoria del passato, visione del presente, lavoro per il futuro) in compagnia dei nostri cari amici creati dal grande Giovannino Guareschi. Troverete da soli le frasi che vi guideranno e troverete anche gli episodi che più vi aiuteranno nel corso della vostra vita. Riprendendo il primo articolo di questa Rubrica, vogliamo solo riportarvi un passo (delicato quanto profondo) dedicato alla riflessione storica
Non si tratta di una mera riproposizione, ma la chiave per poter comprendere la semplice grandezza di Guareschi: «gli alberelli che adesso voi bambini pianterete dentro la terra sono come il legame fra la morte e la vita: fra la vita che sta sopra e la morte che sta sotto. E se l'avvenire dell’albero e il suo progresso verso l'alto sono sopra la terra, le radici sono sotto la terra. E ciò significa che l'avvenire è alimentato dal passato […] guai a coloro che non coltivano il ricordo del passato: sono gente che seminano non sulla terra ma sul cemento»[5].
Secondo me, nessuno ha mai espresso in così poche parole concetti così profondi.


22/01/2017
Francesco Del Giudice


[1] Italo Calvino si è espresso in termini molto simili ai nostri in due sue opere ("Italiani, vi esorto ai classici",«L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68; Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995) dando e commentando molte definizioni sul concetto di “classico” tra cui la seguente: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».
[2] E’ interessante far notare che la Chiesa Cattolica usi un giudizio simile con gli scritti dei Santi: sebbene si debba prendere esempio da tutta la loro vita e le loro opere (compresi pertanto gli scritti), esiste infatti una gradualità e una gerarchia tra le loro opere. Solamente ad alcuni Santi, infatti, è riconosciuto il titolo di Dottore, vale a dire di persona che insegna con autorità ed ovviamente anche le loro opere sono riconosciute come insegnamenti autorevoli. Anche i Dottori della Chiesa, che si estendono dagli albori della Chiesa (San Giustino, Sant’Ireneo di Lione, etc) fino ai giorni nostri (Santa Teresina di Gesù Bambino) hanno tra loro una gerarchia cosicché è riconosciuto a San Tommaso d’Aquino non solo il titolo di Dottore Angelico ma anche quello di suprema autorità in campo filosofico e teologico. Al riguardo è interessante ricordare che tutte le opere dei Dottori della Chiesa sono riconosciute come autorevoli, dalle più grandi a quelle che a prima vista possono sembrare più insignificanti: si pensi a Santa Teresina di Gesù Bambino (che ha scritto pochissime opere di cui la più importante, Storia di un’anima, venne messa per iscritto dalla Santa solamente per spirito di obbedienza alla sua Superiora) e Sant’Alfonso Maria de’ Liguori il quale, accanto alle opere di morale ha anche scritto canzoncine popolari come il Tu scendi dalle stelle ed anche il Quanno nascette Ninno, scritto addirittura in lingua napoletana.
[3] «Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato(Gv 1,18).
[4] Tutto Don Camillo. Mondo Piccolo, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 3 volumi, 2869 pagine, 2003, ISBN: 978-8817995160.
[5] Giovannino Guareschi, Ricordando un vecchia maestra di campagna, Tutto Don Camillo, p. 2030. Mi segnala Fabio Trevisan, che ringrazio vivamente, questo passo di Chesterton (autore che Guareschi amava leggere) nel suo Ciò che non va nel mondo (del 1910): «Per qualche strana ragione l'uomo pianta sempre i propri alberi da frutto in un cimitero. L'uomo può trovare la vita soltanto in mezzo ai morti. L'uomo è un mostro deforme, con i piedi rivolti in avanti e la testa girata all'indietro».

domenica 8 gennaio 2017

Indagine su sessualità e affettività

Indagine su sessualità e affettività

Nel mese di Ottobre 2016 le Voci del Verbo hanno organizzato insieme ad altre associazioni diverse attività per sensibilizzare i giovani sul tema della castità prematrimoniale. Alcuni di noi hanno tenuto degli incontri in una scuola superiore di Benevento e condotto un'indagine su sessualità, vita e affettività, per capire meglio come la pensano i giovani su queste tematiche.

Questa relazione illustra brevemente i risultati principali ottenuti in questo lavoro e suggerisce alcuni possibili punti di partenza per aiutare le nuove generazioni a comprendere la bellezza del messaggio della purezza.



Scarica gratuitamente Indagine su sessualità e affettività in pdf:







lunedì 2 gennaio 2017

Ieri-Oggi-Domani: riflessioni sul tempo e sull’anno nuovo
di Francesco Del Giudice
 

Il giorno 1 Gennaio è riconosciuto (quasi) universalmente come l’inizio del nuovo anno civile: in particolare i Paesi di antica tradizione cristiana, o comunque legati ai costumi occidentali, fanno iniziare il computo dei giorni annuali in questa data.
Sebbene tutte le realtà portino su di sé i tratti e i segni del tempo che passa, il fatto di calcolare il tempo è una prerogativa dell’essere umano. Mi spiego meglio: se voi chiedete ad una pianta quanti anni ha, essa non potrà rispondervi: potrà al massimo mostrarvi i segni dei propri anni in quanto il suo fusto avrà tanti anelli quanti sono i suoi anni oppure (ma a patto di essere stata debitamente curata) darà frutti corrispondenti alla sua età. Le stelle, ad esempio, mostrano la propria età in base alla luce che emettono ma non potranno mai rispondere di avere l’età che hanno, sebbene vivano molto più a lungo di noi.

Mi si potrebbe obiettare che in verità, tutte le realtà create sanno di avere questa o quell’età ma non lo possano dire perché non parlano: anch’esse pertanto calcolano il tempo al modo degli uomini, facendo cadere la proposizione detta poco sopra. In verità, affermare una cosa del genere (obiezione molto interessante, non c’è che dire) equivale esattamente, invece, a dare ragione alla frase: non solo l’uomo è l’unica creatura che computa il tempo, ma lo fa talmente bene che applica il suo computo a quelli delle altre cose. E l’uomo è talmente sicuro di poter computare, ed esso solo, il tempo a tal punto da poterlo anche cambiare, almeno nella rappresentazione del suo scorrere.

Vediamo cosa voglio dire, entrando in uno dei problemi sommi della filosofia (sebbene trattati in maniera esaustiva da pochi filosofi) che ci riguarda in prima persona perché siamo giunti al Giorno di San Silvestro: che cos’è il tempo?
Quando noi affermiamo che una pianta ha dieci anni, applichiamo al computo istintivo delle cose vegetale una categoria razionale, vale a dire umana, per cui ad ogni anello corrispondono 365 giorni. Il fatto dunque di contare 10 anelli nel fusto e dire che la pianta ha 10 anni equivale semplicemente alla trasposizione del modo di pensare il tempo da parte degli umani in un essere che, invece, non ragiona in questo modo.

Il tempo infatti ha un valore oggettivo ma si scontra, per ovvie ragioni, con un dato altrettanto importante: la soggettività del singolo. In questo momento, ad esempio, ogni parola che state leggendo non è nel presente, bensì nel vostro passato in quanto ogni cosa che si fa diventa immediatamente già fatta, vale a dire passata. Contemporaneamente, però, le parole che leggerete a breve, cioè nel futuro, diventeranno il vostro prossimo presente, cioè il vostro immediato passato. Passato-presente-futuro infatti non sono che scansioni del tempo che noi vediamo scorrere (fatto oggettivo) attorno a noi e che da noi (elemento soggettivo) è percepito.

Diceva Sant’Agostino che è difficile dire cosa sia il tempo in quanto «lo so finché nessuno me lo chiede; non lo so più, se volessi spiegarlo a chi me lo chiede»[1]: il grande filosofo d’Ippona percepiva questo problema dinanzi al fatto che il mio presente non è che un soffio, ed il mio futuro diverrà ben presto il mio passato. Sembra, insomma, di trovarci in una condizione illusoria oppure irrazionale in quanto sembriamo affermare risolutamente dire una cosa che poi invece non vediamo confermata nei fatti. Ma non è così, dal momento che lo stesso Agostino capì che nella questione del tempo bisogna relazionarsi con entrambi i piani di cui parlavamo sopra, vale a dire l’oggettività e la soggettività: cos’è infatti l’oggettiva scansione temporale in passato-presente-futuro se non la distensione della propria anima che rileva le cose con la memoria (il passato), che presta attenzione alle cose (il presente) ma che rileva le cose venienti per mezzo dell’attesa (il futuro)?

La soluzione di Agostino, a ben guardare, è veramente geniale giacché il filosofo, attento alle cose reali, non dà per scontato il fatto che esista anche la dimensione dello spirito che egli concilia sapientemente senza fare errori o mescolanze: «per questo mi è parso che il tempo altro non sia che un distendersi. Non so di che cosa, ma sarebbe ben strano se non fosse un distendersi dello spirito. Che cosa misuro, infatti, te ne supplico, Dio mio, quando dico, o in maniera indeterminata: ‘Questo tempo è più lungo dell’altro’, oppure anche determinandolo: ‘E’ doppio di quello?’ So bene di misurare il tempo ma non misuro il presente perché non ha alcuna estensione, non misuro il passato, perché non c’è più. Allora cosa misuro? Non è forse il passare dei tempi, anziché il loro essere passati? Questo avevo detto»[2].
Capiamo bene pertanto che il tempo, benché una cosa oggettiva, debba essere percepito come soggettivo: questo avviene in una maniera a noi naturale per mezzo della scansione ieri-oggi-domani. Amplificando questo concetto è facile capire che si può arrivare al concetto di successione dei giorni, delle settimane (vale a dire di gruppi di 7 giorni cadauno) e dei mesi, e come tale può essere soggetto a variazioni.

Non tutti sanno infatti che il computo del tempo è frutto di un calcolo convenzionale e che il nostro attuale calendario (vale a dire il Calendario Gregoriano) è stato approvato relativamente di recente, cioè nel 1582, e che in alcuni Paesi è entrato ancor più recentemente[3]. La riforma gregoriana inoltre stabilì che l’anno iniziasse il 1 Gennaio abolendo definitivamente i tantissimi usi diversi che possiamo vedere in particolare nel Medioevo: in precedenza, infatti, non era strano trovare città vicine che usassero calendari differenti, in cui il primo giorno dell’anno variava a seconda del computo prescelto. Gregorio XIII in pratica propose ed estese a tutto il Mondo il computo che si usava a Roma e che nel corso del tempo aveva dato maggior stabilità: si noti bene che il calcolo dell’anno civile non segue quello liturgico, cosicché Gregorio XIII non operò nessuna confusione né mescolanza tra i due sistemi che ancora oggi, infatti, risultano sfalsati[4].

Convenzionale è ancora il computo degli anni che da secoli, ed ancor di più dopo la riforma gregoriana, è basato a partire dalla nascita di Cristo: i romani ad esempio computavano a partire dalla fondazione di Roma, i greci dalla prima olimpiade, etc . Anche in epoca moderna si è cercato di introdurre nuovi computi: si pensi al calendario rivoluzionario francese (realizzato in maniera da non avere nulla in comune con la riforma gregoriana a tal punto che qualsiasi festività cattolica era praticamente inconciliabile con il nuovo calendario) oppure al computo degli anni secondo l’era fascista.

Ma se il computo degli anni è così razionale e metodico, perché abbiamo paura del tempo che passa? Non possiamo infatti negare che, in particolare oggi, viviamo in un’epoca viziata da una paura irrazionale dello scorrere del tempo. Guardandoci attorno infatti non possiamo non vedere quanto sia onnipresente sia la gerascofobia (vale a dire una paura persistente, anormale e ingiustificata di invecchiare) sia la tanatofobia (cioè una morbosa paura della morte). Ma allo stesso tempo, segno indelebile che la nostra società vive un vero e proprio dissociamento da ciò che si pensa e ciò che si fa, non è pur vero che si ricerca disperatamente di vivere il presente proiettandosi sempre verso il futuro? La prova di quanto ho appena affermato è la spasmodica ricerca dei festeggiamenti di Capodanno: cosa bisogna festeggiare, in effetti? Che inesorabilmente il tempo è passato? Oppure che, altrettanto inesorabilmente, siamo invecchiati di un anno? E che, sempre inesorabilmente, ci avviamo sempre di più verso la morte?

Non vogliamo spaventare nessuno, e non vogliamo demonizzare il corretto modo di festeggiare che fino a qualche decennio fa significava ammazzare l’anno vecchio, ringraziando per quello passato sperando il miglior bene per il futuro. La questione infatti è tutta nella gerarchizzazione degli eventi e del giusto modo di intendere sia il far festa sia il proprio posto all’interno del tempo.

E’ un fatto innegabile che un discorso del genere sia difficile senza una prospettiva religiosa, cristiana in particolare, in quanto solo in questo modo ci si libera della contingenza delle cose per potersi proiettare verso un mondo futuro: se si vive in una concezione religiosa, infatti, non si avrà paura di invecchiare in quanto il tempo che passa è un avvicinarsi sempre di più al proprio Dio per poter essere unito a lui. Ma se non ho una concezione religiosa, e penso spasmodicamente che la mia vita si proietti solamente nel presente (che, però, abbiamo visto essere una condizione effimera a causa della sua infima brevità) che senso ha sperare nel futuro?

Si tratta infatti di un grande dilemma che attanaglia il cuore dell’uomo contemporaneo: dover vivere. Per essere vivo, si sa, si deve festeggiare, soprattutto per dare un senso alla propria vita, in quanto si pensa di vivere bene il proprio presente: quale migliore occasione pertanto il festeggiare sempre più festività e giornate dedicate (festa della donna, festa dei nonni, etc etc)? Ecco che, pertanto, l’uomo che cerca continuamente di festeggiare non fa altro che fuggire dal proprio tempo che è fatto sempre più di eventi passati rispetto a quelli futuri: ci abbiamo mai pensato? Non sapendo infatti in che giorno moriremo, noi abbiamo sempre più eventi alle spalle rispetto a quelli che ipotizziamo per il futuro.

Festeggiamo pertanto intelligentemente il nuovo anno, meditando su quello passato e facendo dei buoni propositi per il futuro: possiamo prendere esempio dalla liturgia cattolica che invita ogni fedele a ringraziare il Signore per i benefici ricevuti nel corso dell’anno concluso (la famosa Messa di Te Deum) chiedendo benedizioni per il futuro. Ma dobbiamo far questo con la certezza che inesorabilmente, citando una canzone italiana cantata da Fiorella Mannoia, il tempo non torna più. Ma dobbiamo fare questo senza scoraggiarci in quanto tutto ciò è connaturale alla nostra natura umana: come abbiamo detto sopra, infatti, solo l’uomo sa che il tempo passa e che si possa calcolare. La nostra vita infatti ha senso solo se si accetta pienamente la nostra natura umana, comprensiva pertanto anche della verità (amara, ma non di meno vera) che prima o poi arriverà anche sorella morte.

Facendo questo a nostro parere ci sarà una buona fine ed un buon principio. Altrimenti sarà solamente un inevitabile passo verso il nulla simile a quanto si dice avvenne sul Titanic che cadde tra i flutti mentre tutti ballavano e danzavano.
Buon anno a tutti, con i migliori auguri per poter essere sempre più persone pensanti.


[1] Agostino, Confessioni, XI, 14, 17.
[2] Ibidem, XI, 26, 33.
[3] Basti pensare al caso della Russia dove fino al 1918 vigeva il Calendario giuliano.
[4] Nella Chiesa Cattolica il Calendario Liturgico inizia con i Primi Vespri della I Domenica di Avvento che cade generalmente nel mese (civile) di Novembre.