giovedì 23 febbraio 2017

La Battaglia di Hacksaw Ridge



di Francesco Del Giudice e Anna Fagiolo

Il 2017, dal un punto di vista cinematografico, si apre con una piacevole notizia che è anche una certezza: Mel Gibson colpisce ancora, e ancora una volta fa centro. L’attore/regista di Braveheart, The Passion ed Apocalypto è tornato infatti sugli schermi con un nuovo film: La Battaglia di Hacksaw Ridge che narra l’esperienza sotto le armi (nella Battaglia di Hokinawa, nel Giappone del 1945) di Desmond Ross (Andrew Garfiled), un obiettore di coscienza onorato della più alta onorificenza militare statunitense. Si tratta senza alcun dubbio di un film che vale per intero il prezzo del biglietto (come anche quello dei pop-corn) in cui ogni singolo fotogramma è intriso di grandi tematiche (fede, patria, guerra, famiglia, tra le altre) e che permette al cervello, sia durante la visione del film che in seguito, di accendersi e di lavorare: sia che si torni a casa in silenzio, sia che si lasci il cinema discutendo con i propri amici, le domande che Mel Gibson ha voluto lanciare a tutto il mondo vengono prepotentemente a galla.

Abbiamo visto il film in un pomeriggio della settimana scorsa, in una sala semi-vuota (ma era pur sempre lo spettacolo delle 15:00) e tornando a casa abbiamo animato il vagone del treno sul quale ci trovavamo discutendo apertamente, e sotto certi versi anche animatamente, delle numerose tematiche del film ed abbiamo deciso di farvene partecipi. Su diversi punti le nostre visioni coincidono, su altre un po’ meno ma il semplice fatto che ne è scaturita una discussione vuol dire che le domande che ci siamo posti non sono poi così peregrine: se una cosa è evidente, infatti, è logico parlarne ma se si parla di un qualcosa che non c’è vuol dire fantasticare.

Il film in se stesso è molto semplice, e la trama rispecchia i primi 20/25 anni della vita di Desmon Ross che abbiamo tratteggiato poco sopra. La struttura della trama riprende inoltre elementi che si ritrovano anche in altri film dello stesso genere: un inizio per così dire pacifico (sebbene le primissime scene riportino parti della battaglia che troveremo in una parte sostanziosa di tutta la pellicola), l’arruolamento volontario nell’esercito degli Stati Uniti del protagonista ed il relativo addestramento, la realtà del campo di battaglia. In chiusura c’è anche una brevissima parte documentale, con alcune video interviste realizzate ad alcuni dei protagonisti, cosa che rende il prodotto anche interessante perché permette di uscire dalla logica della finzione ed addentrarsi sempre più nei dedali della coscienza personale di ciascuno dei protagonisti. I dialoghi non sono mai banali, con una punta di spirito qua e là per distendere la tensione (memorabile la discussione tra Desmond ed un suo commilitone, suo acerrimo nemico durante l’addestramento, nella prima notte che segue la battaglia dove i due sono stati buttati in mezzo dai loro superiori). Come ci ha abituato a fare nei suoi ultimi lavori, Mel Gibson cura in maniera dettagliata la fotografia, che restituisce un’immagine accurata di ferite e di esplosioni, come anche le condizioni di vita di quello che si può incontrare in guerra: non manca il punto di vista di ogni soldato, rappresentato ora dalla camera sfocata (riproducente lo sguardo spento e spossato di Desmond dopo le fatiche della notte alla ricerca dei feriti) ora dal fucile da guerra da cui saltano fuori decine di bossoli. Non manca l’elemento romantico, vale a dire la storia d’amore tra Desmond e sua moglie Dorothy, raccontata con emozione e semplicità senza né fronzoli di sentimentalismo né, tantomeno, mostrare una benché minima immagine di sesso esplicito: in una settimana in cui un film inneggiante all’amore sadomasochista, scevro di qualsiasi affetto e basato unicamente sulla dominante sessuale e psicologica, sta sbancando ai botteghini è bene invece sottolineare come si possa parlare, ed anche mostrare, un amore ed anche un rapporto, come può essere quello tra un marito e sua moglie, senza tuttavia mostrare nudità o rapporti sessuali consumati.

Tornando alle scene che rimarranno impresse agli occhi dello spettatore, sicuramente non si può tacere il contrasto tra la dimensione e l’ambiente familiare (in particolare dell’infanzia) del protagonista e quella bellica, in tutta la sua brutale e nuda verità, che viene trasmessa a livello visivo da splendide inquadrature del paesaggio in cui avvengono le singole vicende: casa Ross è circondata da erba verde, un bosco, montagne ed anche un fiumiciattolo; sul campo di battaglia, lontano centinaia di miglia da casa, invece, la macchina da presa si focalizza sulla rupe sassosa ed irta che conduce ad una spianata dominata solo da alberi secchi, e dalla presenza dei tanti morti sul terreno duro brulicante di topi che si cibano delle carcasse dei soldati caduti. Ma attenzione: essendo il film un ritratto vero delle vicende di Desmond (e non una finzione idilliaca ed idealizzante, in stile Famiglia del Mulino Bianco) il paesaggio non deve fuorviare il giudizio dello spettatore: a casa Ross non sono tutte rose e fiori e, contemporaneamente, è proprio sul terribile campo di battaglia (in cui il colore dominante è il grigio del fumo dei colpi sparati ed il rosso delle carni straziate) che il protagonista mette davvero alla prova se stesso e riesce soprattutto a far del bene. Da questo punto di vista, è emblematico uno scambio di battute tra i soldati della compagnia di Desmond che arriva a pochi metri dal Hacksaw Ridge ed il medico della compagnia che invece l’ha appena abbandonata («Com’è li sopra? Ehi! Ho detto com’è li sopra?», «L’inferno: i musi gialli non temono la morte, anzi: la cercano»): probabilmente è questo il punto di cesura tra la prima e la seconda parte del film, tra la vita dura ma pur sempre lontana dalla prima linea della caserma e il campo di battaglia, tra la luce e l’ombra, tra la preparazione e il mettere in pratica, tra le scelte da compiere ed il metterle in pratica all’istante.

Il film di Mel Gibson parla di coerenza, e probabilmente lo fa sia da un punto di vista “americano” che “giapponese” (mostrando ad esempio anche l’indomito coraggio ed il sacrificio epico dei nemici i quali si buttano all’assalto, quasi alla baionetta, spinti dall’ideale di servire la Patria) partendo tuttavia da un punto di vista ben chiaro e apparentemente contraddittorio: Desmond Ross è un soldato che arruolatosi volontariamente (perché l’esercito degli Stati Uniti non è un esercito formato da coscritti di leva come lo intendiamo noi europei) sceglie di vestire un’uniforme militare ma di non toccare assolutamente un’arma, perché «morde» (e ricorda a Desmond di aver desiderato di uccidere con una rivoltella suo padre ubriaco cercando di salvare sua madre dalle percosse,) volendo andare testardamente in prima linea senza possibilità di difendersi ma, anzi, cercando di salvare, in quanto operatore sanitario, le vite dei propri commilitoni. Si tratta di una coerenza di pensiero (e che, quindi, si traduce anche in coerenza di azione secondo l’adagio agere sequitur esse) che probabilmente solo Mel Gibson poteva mettere in scena in maniera così nuda e perfetta: se infatti volete una riflessione patinata o stereotipa del fare il proprio dovere e di ricordare gli esempi di storia patria, questo film non fa per voi. La vita di Desmond (ma, ripetiamo, probabilmente di tutti, o quasi tutti, i protagonisti del film) si traduce in eventi che lo spingono ad andare oltre il minimo indispensabile a tenere a bada la propria coscienza.

Desmond, benché venga bollato come vigliacco ed un antiamericano solo perché obiettore di coscienza, riesce con una tenacia che ha dell’incredibile, radicata solamente nella sua fede di Cristiano Avventista del Settimo Giorno, a mantenere la sua posizione: Desmond non nasconde la sua identità ma l’afferma o la sottolinea quando è necessario farlo, senza quindi vanagloria o fanatismi («Ti credi meglio degli altri?» «No, per nulla!» - «Figliolo, tutti qui crediamo in quel libro, ma nessuno si comporta come te: perché fai così?» «Perché sono un Cristiano Avventista del Settimo Giorno ed il sabato è il mio shabbat, Signore»). La cifra di tutto il film, di tutta la vita di Desmon Ross, è infatti questo principio: si deve fare ciò che si è chiamati a fare (e che, dunque, si deve fare). Secondo il linguaggio della dottrina morale della Chiesa Cattolica questo corrisponde al proprio dovere di stato: ogni persona, cioè, deve agire facendo quello che deve fare e solo facendolo la sua vita si riempie di senso e diventa pienamente vissuta. Mel Gibson da questo punto di vista, a nostro parere, mutatis mutandis, è paragonabile a Santa Caterina da Siena la quale rivolgendosi sia ai vari principi del suo tempo sia ai suoi discepoli, esortava tutti con l’invito «se sarete quello che dovete essere, metterete a fuoco l’Italia»: Mel Gibson infatti porta sullo schermo non solo una delle battaglie più cruente del fronte del Pacifico della II Guerra Mondiale, non porta unicamente una riflessione sulla pace e sulla guerra (tra l’altro, se questa interpretazione fosse corretta, Desmond sarebbe in palese contraddizione con se stesso in quanto non critica mai né i Giapponesi né tantomeno i suoi commilitoni che sparano ed uccidono il nemico che gli si pone dinanzi: anzi, per poter salvare diversi compagni, non esita ad esporsi per far uscire allo scoperto cecchini e soldati nemici nascosti che verranno a loro volta presi di mira ed uccisi dagli americani), e altresì non racconta nemmeno unicamente la singolare vicenda di un obiettore di coscienza in prima linea. Mel Gibson ci parla di altro, ovvero di come una persona deve compromettere tutto se stesso quando sa e sente di dover compiere una determinata azione anche in palese contraddizione con il pensiero dominante. La frase radicale (intendendola anche in senso etimologico, che è dunque alla radice delle cose) non è tanto la preghiera di Desmond sul campo di battaglia «Ti prego Signore, fammene trovare un altro» bensì il grido di (quasi) disperazione che il protagonista rivolge a Dio all’interno della cella in cui è stato confinato dai suoi superiori che non accettano la sua obiezione di coscienza: «Cosa vuoi da me?». E questa frase, sebbene non pronunciata, è facilmente individuabile negli occhi attoniti di Desmond il giorno in cui, con non poche fatiche, scala per la prima volta Hacksaw Ridge e vede dinanzi a se lo sfacelo procurato da giorni di bombardamento e dall’avanzata delle due parti in lotta tra di loro: stesso sguardo che ritroviamo al momento della ritirata statunitense quando Desmond si rifiuta di calarsi dalla rupe e rimane, inerme, sulla spianata del campo di battaglia avviandosi verso le fiamme dei bunker e delle trincee in fiamme (spettacolare la visione del muro di fuoco, un vero e proprio inferno, in cui il protagonista, novello Dante, entra per poter salvare i propri compagni).

Desmond crede realmente  in quello che fa e lo fa perché crede quasi volesse mostrare che la fede senza le opere è vana[1]. Ma dobbiamo stare attenti ad alcuni possibili errori frutto dell’emotività che suscita il film e la sua figura: Desmond, e quindi Mel Gibson, lo ripetiamo, non fa un elogio dell’obiezione di coscienza in contrapposizione a chi sceglie di abbracciare le armi per difendere il proprio Paese ed i valori nazionali; non vi nascondiamo che la prima persona che ci è venuta in mente guardando il film, non è stato né Gandhi né altri maestri della non-violenza: a nostro avviso il miglior paragone che si possa fare è quello, anche qui mutatis mutandis,  con Santa Giovanna d’Arco vale a dire di una giovincella che, contrariamente a tutti gli standard della sua epoca, spinta da voci interiori, si rivolse al futuro Re di Francia ad accettare la Corona del Regno (invitando quindi a fare ciò che doveva fare) e prese le armi andando anche in battaglia contro gli invasori inglesi: né Giovanna né la Chiesa Cattolica hanno mai fatto un elogio della carriera militare femminile ma, contemporaneamente, è innegabile che ha compiuto la volontà di Dio ricoprendo incarichi riservati generalmente agli uomini e imbracciando le armi.

Desmond non è un santo modernamente inteso, vale a dire – ci sia permessa la semplificazione – perfetto e tutto miele e zucchero: egli è un uomo di carne e ossa, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, Desmond, in quanto uomo, ha le sue passioni, i suoi momenti bui, le sue gioie ed i suoi amori ma che, pur tentano continuamente di abbandonare tutto e tutti (la tentazione a lasciar perdere tutto è sempre dietro l’angolo, cosa che Mel Gibson sa bene: in The Passion non è forse lui ad inserire tra le persone che seguono Gesù nella Via Crucis, probabilmente per la prima volta in tutta la storia del cristianesimo, il Diavolo che tenta Cristo non volendo che si compia il sacrificio della croce?) riesce sempre a reagire (oppositum per contrarium afferma sempre la morale cattolica) con uno slancio eroico[2] degno di questo nome impegnandosi sempre a compiere il bene che corrisponde – e sarà sempre bene ricordarlo fino alla nausea – nell’esercizio di ciò che si deve fare in un determinato momento.

A proposito della rappresentazione a tutto tondo della persona del protagonista, è interessante il rapporto che Desmond ha con Thomas, suo padre (Hugo Weaving), rimasto traumatizzato dalla perdita degli amici commilitoni sul Fronte Occidentale della Grande Guerra (da cui è tornato con due medaglie al merito): alcolista violento, prende le distanze dai figli al momento dell’arruolamento si arruolano per poi far leva sulle sue conoscenze per aiutare il figlio minore cui si voleva negare la sua peculiarità di obiettore di coscienza sotto le armi. Desmond sa benissimo che ha un padre tremendo, e lo confesserà anche nella prima notte di guerra al suo compagno di fossa, ma ugualmente lo ama, soprattutto per avergli trasmesso quel sentimento di amor patrio che lo muove all’arruolamento ed alla guerra. E proprio questo amore/odio per il padre che spinge il figlio a prendere la risoluzione di non uccidere, anzi: di non toccare nemmeno un’arma. Quale migliore occasione per comprendere, vivere e trasmettere ciò che dice San Paolo «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio», rendendo visibile il fatto che Dio trae sempre un bene dal male?
Per concludere dobbiamo dare ancora fare alcune brevi considerazioni.

La prima è che ci ha (felicemente) sconvolto il fatto che il film si apra con la frase «una storia vera» e non «tratto da una storia vera» e sia assente il benché minimo accenno a rimaneggiamenti o libertà del regista e degli sceneggiatori: tutto ciò che Mel Gibson racconta è vero, corroborato dalle testimonianze finali di alcuni protagonisti, ormai anziani, degli eventi (se non ci fosse stata quella scritta sarebbe stato difficile ammettere che Desmond abbia deviato ben due bombe a mano giapponesi, la prima con le mani e la seconda con un calcio degno di un centrocampista per poter salvare i suoi compagni). Ci piaccia o non ci piaccia, quello che è concentrato nel film ha fatto realmente parte della vita di quest’uomo e dell’esercito degli USA. E’ ovvio che la Bibbia sia una specie di sottofondo di tutta la trama (gli esempi sarebbero tantissimi ma basta ricordare il parallelismo tra la preghiera di Desmond prima dell’assalto finale che spinge gli uomini a battersi come leoni con la preghiera di Mosè durante le campagne di conquista della Terra Promessa compiute da Giosué) ma, come anche dicevamo prima, se un fedele vuole vivere intensamente la propria vita saprà leggere e trarre tutti i benefici possibili da ciascuna pericope delle Sacre Scritture ricordando sempre che è lo Spirito Santo, secondo quanto promesso e garantito dalle parole di Gesù, che ci indicherà i modi ed i tempi di agire e parlare.

La seconda riguarda un parallelismo impossibile da non compiere vedendo il film e contestualizzandolo all’interno delle aspre polemiche, che negli USA avvengono praticamente quotidianamente, che riguardano la libertà religiosa ed il ruolo pubblico delle religioni nella società: lo scambio di battute, dure e taglienti come può avvenire quando si difende la verità, tra Thomas Ross ed il giudice della corte marziale che deve giudicare suo figlio ne è una riprova. La conferma è data anche da una delle interviste finali in cui viene affermato che avere o non avere una fede, e quindi difenderla e non difenderla, non è la stessa cosa: la sottolineatura dei valori costituzionali, delle garanzie riconosciute dai Padri Fondatori, dai valori incarnati e rappresentati e difesi dalle uniformi militari non lasciano dubbi al riguardo.

Si tratta di un ottimo film per chi al cinema non va solo per passare un po’ di tempo. Questi sono i film che prendono e che restano attaccati molto più a lungo della durata della pellicola. Secondo Francesco non è un vero kolossal benché abbia ottenuto diverse nomination agli Oscar (Francesco avrebbe infatti gradito maggior rispetto e riconoscimenti per The Passion e forse ancor di più per Apocalypto). Forse non si tratta di un vero e proprio kolossal al pari di altri lavori di Mel Gibson ma è, e resterà tale, ciò che l’ha definita il settimanale Tempi: «una gibsonata». Mel Gibson c’è. E ringraziamo Dio che ce l’ha ridato.
E parlando di Dio chiudiamo la nostra riflessione con un’ennesima, necessaria, essenziale, ineludibile domanda cui però non vogliamo dare risposta perché probabilmente Mel ce la lascia volutamente aperta: il protagonista vero del film chi è? Desmond o Dio?

Anna Fagiolo - Francesco Del Giudice


[1]Cfr. Gc 2,26. E’ innegabile che l’essere coerenti nei fatti con la propria fede comporta anche un’azione nella vita pubblica sulle orme di Cristo che, medico delle anime e dei corpi, si è fatto tutto a tutti fino all’effusione del suo sangue per la salvezza di tutta l’umanità: riconosciamo sinceramente che senza la citazione della Lettera di San Giacomo è difficile per noi far capire questo concetto.
[2]E’ doveroso, facendo una rapida incursione nella teologia cattolica, ricordare un principio della Chiesa Cattolica oggigiorno abbastanza dimenticato: contrariamente a quanto si pensi, la santità non consiste nel fare il bene (inteso in maniera generica, filantropica ed umanitaria) bensì nell’esercizio eroico delle virtù che si dividono in due grandi gruppi, le cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e le spirituali (fede, speranza e carità). Solo partendo da questo punto si capisce come la Chiesa, e da sempre, venera come Santi sia uomini di governo che monache di clausura, medici e religiosi, sacerdoti e laici, sposi e consacrati, semplici insegnanti ma anche teologi, agricoltori e guerrieri, etc.

venerdì 3 febbraio 2017

Edith Stein. Breve invito alla lettura di una filosofa da rivalutare

Il 27 Gennaio si celebra in tutto il Mondo La Giornata delle Memoria, dedicata alla Shoa ed a tutte le complesse vicende dei crimini operati dal nazionalsocialismo. La rubrica di filosofia Quid est Veritas? intende rendere omaggio a tutte le vittime di questa barbarie proponendo un invito alla lettura delle opere di antropologia e pedagogia di Santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein) deportata e uccisa ad Auschwitz-Birkenau il 9 Agosto 1942.

La figura di Santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein) non è conosciuta come meriterebbe sia in ambito cattolico che filosofico in generale. Poiché la sua poliedrica personalità non è facilmente etichettabile in categorie, si tende generalmente a dimenticarla, soprattutto in Italia, anche a livelli accademici e scolastici.
Come potremmo definire Edith Stein? Nata ebrea, divenne ben presto atea; si avvicinò alla filosofica di Husserl (facendo anche la crocerossina volontaria durante la I Guerra Mondiale) come anche al mondo femminista; anche grazie alla filosofia scoprì la fede cattolica, cui si convertì nel 1921 (venne battezzata il 1/01/1922); grazie alla fede cattolica rilesse tutta la sua vita e le sue esperienze accademiche e filosofiche avvicinandosi sempre più al pensiero di San Tommaso d’Aquino; continuò i suoi studi sulla donna ma da un punto di vista anche pedagogico e non solamente filosofico; decise di consacrarsi a Dio entrando nel 1938 nel Carmelo prendendo il nome di Teresa Benedetta della Croce; in convento scrisse opere di teologia mistica cercando tuttavia di continuare a proseguire i suoi studi filosofici; senza rinnegare o nascondere le sue radici ebraiche venne deportata insieme alla sorella Rosa nel campo di concentramento di Amersfort, poi in quello di Westerborck ed in fine in quello di Auschwitz-Birkenau, dove venne asfissiata e cremata il 9/08/1942; la Chiesa Cattolica ne ha riconosciuto la morte in odium fidei, e dunque il titolo di martire, beatificandola nel 1987 e canonizzandola l’11/10/1998; nel 1999 è stata dichiarata Compatrona d’Europa[1].
Chi è dunque Edith Stein? Una filosofa, una religiosa, una pedagogista, un’atea, una convertita, una femminista, una martire, un’ebrea, una perseguitata? Ed inoltre: è corretto chiamarla Edith Stein? Oppure dovremmo chiamarla con il nome che assunse da religiosa e che la Chiesa Cattolica le riconosce (cioè quello di Teresa Benedetta della Croce)? Ed il suo pensiero filosofico fu una mera riproposizione delle tesi di Husserl o di San Tommaso oppure ebbe delle intuizioni innovative, se non un vero e proprio pensiero autonomo?
Sono interrogativi non di poco conto in quanto noi siamo abituati, volenti o nolenti, a categorizzare tutto lo scibile umano, cercando di compiere sempre più una distinzione (se non una vera separazione) tra le varie materie e conoscenze: con Edith Stein tutto ciò cade dinanzi ai nostri occhi in quanto la sua personalità è talmente grande da non poter essere né severamente categorizzata né contenuta in una semplice etichetta. Con un sommo atto di umiltà dobbiamo semplicemente affermare che Edith Stein è stata ciò che è stata, nel senso che ogni affermazione di sopra, se contestualizzata nella sua precipua cornice storica e personale, risulta in ultima istanza vera: possiamo parlare di Edith Stein ma anche di Teresa Benedetta della Croce; abbiamo dinanzi un’ebrea convertita al cattolicesimo; venne deportata per motivazioni razziali ma anche per l’appartenenza alla Chiesa Cattolica olandese che aveva denunciato i crimini nazisti; e così per ogni domanda che ci siamo posti sopra.
Al riguardo sono molto belle e chiarificatrici le espressioni usate da Giovanni Paolo II «ci inchiniamo profondamente di fronte alla testimonianza della vita e della morte di Edith Stein, illustre figlia di Israele e allo stesso tempo figlia del Carmelo. Suor Teresa Benedetta della Croce, una personalità che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo, una sintesi ricca di ferite profonde che ancora sanguinano; nello stesso tempo la sintesi di una verità piena al di sopra dell'uomo, in un cuore che rimase così a lungo inquieto e inappagato»[2]; «tutto in lei esprime il tormento della ricerca e la fatica del “pellegrinaggio” esistenziale. Anche dopo essere approdata alla verità nella pace della vita contemplativa, ella dovette vivere fino in fondo il mistero della Croce»[3].
Tutta la vita di Edith Stein, infatti, è stata una continua ricerca della verità, abbandonando di volta in volta ciò che non lo era ma portando con sé le intuizioni ed il bene di ogni esperienza. E’ altrettanto vero ed evidente, inoltre, che Edith Stein ha vissuto profondamente, coscienziosamente, ed anche liberamente, ogni fase della sua vita: dalla ricerca della verità nella fenomenologia fino all’accettazione di morire per mano dei nazisti del campo di Auschwitz per la salvezza del suo popolo[4]. La ricerca del senso profondo della vita, e dunque della verità[5], è infatti il fuso attorno al quale si dipana tutta la vita della filosofa tedesca e che è possibile rintracciare in tutte le sue opere, da quelle della gioventù fino alla Scientia Crucis[6] (considerato il suo capolavoro teologico).
Un altro valido motivo per cui Edith Stein non è conosciuta è la facilità di lettura delle sue opere: avete letto bene, non ho sbagliato a scrivere. Ritengo infatti che più un autore è di aiuto per i nostri giorni, e ancor di più se parla chiaramente, più è rifiutato dalla sedicente cultura contemporanea che, come è noto, non cerca il senso profondo delle cose, limitandosi invece alla mera descrizione dei fenomeni: volendo mettere sullo stesso piano tutto, fuorché una definizione precisa di Verità, alla fine non accetta nulla ed è costretta pertanto a rifiutare la stessa filosofia.
Si può cominciare a leggere Edith Stein pur non avendo grandi conoscenze filosofiche e conviene approfittare immediatamente delle sue conferenze o delle sue lezioni (tenute prevalentemente ad un pubblico giovanile e femminile) che ora sono raccolte nell’opera omnia in italiano sotto i titoli di La Donna. Questioni e riflessioni[7] e La struttura della persona umana. Corso di antropologia filosofica[8]. Altri testi più organici (cioè non derivanti da testi letti in lezioni, conferenze, etc) si collegano a questi due testi e sono altrettanto belli da leggere: dubito infatti che dopo aver letto qualche brano di Edith Stein non sorga il desiderio di leggerne altri passi. Potranno passare qualche settimana, anche dei mesi o degli anni, ma quel desiderio rimarrà sopito nel cuore del lettore, alla ricerca di un pensiero profondo ma altrettanto semplice e chiarificatore.
I due volumi che ho appena citato, e lo dico per esperienza diretta[9], sono probabilmente quelli che possono essere facilmente letti ed apprezzati da un pubblico giovanile e dagli studenti di storia della filosofia delle scuole; tutti i suoi testi sono molto belli (compreso l’epistolario) ma oggigiorno mi sembra di ritrovare le stesse motivazioni che spinsero Edith Stein ad occuparsi di pedagogia ed antropologia filosofica:  la negazione dell’uomo e la riduzione dell’educazione a mera istruzione. Leggere questi due testi sarà una boccata di aria fresca, leggera e salubre per i nostri poveri ragazzi costretti invece a studiare solamente la parte destruens e negativa della filosofia del novecento contro cui si scontrò la stessa Edith Stein (in particolare Heidegger): e diciamo questo a ragion veduta, in quanto il metodo fenomenologico[10] di Edith Stein (che ella prende da Husserl, sebbene con alcune specificazioni e differenze) è molto vicino alla filosofia realista propria del pensiero classico e cristiano.
Leggiamo dunque Edith Stein (lo dico prima di tutto a me stesso) e andiamo alla ricerca di persone positive del mondo della filosofia contemporanea, che sanno dialogare sia con il passato che con le sfide a noi contemporanee, abbeverandoci a quella fonte del sapere classico che come un fiume carsico giunge fino ai nostri giorni: scopriremo che questi scritti non hanno età ed un valore profondo per tutta l’umanità.

Francesco Del Giudice


[1] Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» Spes Aedificandi del 1 Ottobre 1999. I Patroni d’Europa sono in tutto 6, 3 donne e 3 uomini. Santa Teresa Benedetta della Croce è stata associata nel suo patronato ad altri Santi e Sante che la Chiesa Cattolica considera come dei veri giganti della fede: Santa Caterina da Siena (Vergine e Dottore della Chiesa, mistica, consigliera di Papi e Sovrani); Santa Brigida di Svezia (che fu moglie, madre, religiosa e fondatrice, avendo anche visioni mistiche e rivelazioni personali); San Benedetto (padre del monachesimo d’Occidente); San Cirillo e San Metodio (apostoli degli Slavi, ideatori della scrittura cirillica con cui tradussero anche la Bibbia).
[2] Giovanni Paolo II, Beatificazione di Edith Stein – Teresa Benedetta della Croce, Colonia 1/05/1987.
[3] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» Spes Aedificandi del 1 Ottobre 1999, n. 8.
[4] All’epoca della sua deportazione, Suor Teresa Benedetta si trovava in Olanda, nel Carmelo di Echt, insieme a sua sorella Rosa (anch’ella convertita al cattolicesimo): era stata trasferita in Olanda dai suoi superiori nel 1938, a seguito dell’inasprimento delle persecuzioni naziste contro gli ebrei. Nel Luglio 1942 i Vescovi olandesi cattolici decisero di leggere pubblicamente nelle chiese una dura condanna contro i pogrom e le deportazioni degli ebrei ad opera dei nazisti: non solo aumentò la persecuzione, ma come rappresaglia vennero perseguitati e deportati anche gli ebrei convertiti, tra cui vi erano Edith e Rosa Stein. Il 2 Agosto la Gestapo andò a prelevarle nel Carmelo. Le ultime parole di Edith Stein sono rivolte a Rosa: «Vieni, andiamo [a morire] per il nostro popolo».
Il 4 Agosto 1939, Teresa Benedetta della Croce aveva fatto la sua personale offerta al Sacro Cuore di Gesù per tutti gli ebrei e per tutti gli oppressi.
[5] Ci si ricordi della definizione di filosofia data all’inizio di questa Rubrica, vale a dire la risposta alle domande profonde dell’uomo: chi sono?, come sono?, da dove vengo?, dove vado?, perchè sono?
[6] Edith Stein, Scientia Crucis, Edizioni OCD, Roma 2011, 448 pagine, ISBN: 9788872295304.
[7] La donna. Questioni e riflessioni, Città Nuova – Edizioni OCD, Opere complete di Edith Stein - Vol. 13, Roma 2010, 358 pagine, ISBN: 9788872294765.
[8] La struttura della persona umana. Corso di antropologia filosofica, Città Nuova – Edizioni OCD, Opere complete di Edith Stein - Vol. 14, Roma 2013, 245 pagine, ISBN: 9788872295670.
[9] Lo scorso anno ho tenuto una conferenza sui testi appena citati di Edith Stein per il Triennio di un Liceo Classico: anche gli alunni che non avevano studiato le filosofie del XX secolo erano profondamente interessati ed attenti sia al discorso generale che alle citazioni dirette della filosofa.
[10] «Il principio più elementare del metodo fenomenologico: considerare le cose stesse. Non andare a consultare le teorie sulle cose; escludere, ove è possibile, tutto ciò che si ascolta, si legge o che si è costruito da soli, avvicinarsi a esse con uno sguardo privo di pregiudizi e attingere all’intuizione immediata […] il secondo principio recita infatti: indirizzare lo sguardo all’essenziale»: La struttura della persona umana. Corso di antropologia filosofica, Città Nuova – Edizioni OCD, Opere complete di Edith Stein - Vol. 14, Roma 2013, p. 39